Le bufale non circolano solo oggi. Ce ne sono molte, più datate, che riguardano la storia di Arezzo. Ecco un breve campionario di false notizie: tra i colpevoli, udite udite, anche Giorgio Vasari
In tempo di coronavirus l’espressione “fake news” è all’ordine del giorno più che mai. Se iniziassimo a catalogare tutte le false notizie o le interpretazioni arbitrarie che sono state messe in circolazione per spiegare la nascita e la diffusione del Covid-19, potremmo tirare fuori un libro. Per la pagina delle curiosità di questo numero, ci è venuta così l’idea di fare quattro passi nella storia di Arezzo, per scoprire alcune “bufale” singolari. A volte nascevano senza alcun fondamento ma in buonafede, nel tentativo di spiegare un argomento. Altre volte le “panzane” erano costruite con un preciso scopo.
Partiamo proprio dal nome “Arezzo”, ovvero la romana Arretium, la cui origine ancora oggi non è stata chiarita, nonostante glottologi e linguisti abbiano dedicato tanti studi all’etimologia del toponimo. Pre-etrusco, etrusco, per qualcuno addirittura semitico. Di ipotesi ne sono state fatte tante, ma nessuna finora è stata risolutiva. Di sicuro il nome attuale della città non viene da Arizzo, come ancora molti aretini si tramandano di generazione in generazione, parlando di un luogo “arizzato” dopo un fantomatico terremoto.
Rimanendo nell’antichità, una “bufala” che è il caso di definire monumentale riguarda la collina di San Cornelio e la sua parte sommitale di Castelsecco, dove sono i resti di un santuario etrusco-romano. Secondo Vincenzo Funghini, a cui dobbiamo le prime indagini negli anni ottanta del XIX secolo, Arezzo e il colle sarebbero stati un tutt’uno. Il muraglione di contenimento dell’area sacra che ancora oggi vediamo, quindi, non sarebbe altro che il residuo di un’immaginaria cinta lunga chilometri che includeva una bella fetta del centro storico attuale, San Cornelio e le zone del Pantano e dei Cappuccini. Alla teoria Funghini dedicò persino una piantina in un libro del 1896.
Adesso ci trasferiamo in pieno centro storico per parlare della villa di Ponzio Pilato. Avete capito bene, perché ancora oggi, basandosi su una vecchia tradizione, c’è chi sostiene che via dei Pileati, ovvero il prolungamento di Corso Italia nella parte alta della città, prende il nome da una residenza del più noto prefetto romano in Giudea. In realtà fa riferimento al pileo, il copricapo utilizzato anche nell’antichità dalla forma a cono con la punta arrotondata. Non è chiaro, però, se a indossarlo erano i funzionari dislocati nel Palazzo Pretorio e carcere della città, oggi biblioteca comunale, o se i “pileati” erano i soldati per la forma dell’elmo.
Anche Giorgio Vasari non fu esente da “fake news”. Nel suo “Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori, e architettori”, uscito per la prima volta nel 1550, l’artista e storiografo scrisse per primo le biografie dei grandi artisti dal Duecento ai suoi giorni. Un’impresa coraggiosa con gli strumenti a sua disposizione e perciò soggetta a errori nelle attribuzioni delle opere. Riguardo il patrimonio locale viene da pensare, tuttavia, che la scelta di certi nomi altisonanti nelle assegnazioni fu dettata anche dal desidero di far apparire importante la sua città agli occhi di chi leggeva. Ecco che il campione della pittura gotica, Giotto, lo troviamo a lavorare nella Pieve per il “San Francesco” e il “San Domenico”, oggi aggiudicati all’aretino Andrea di Nerio, oppure al “Crocifisso” della Badia e al disegno per il “Cenotafio di Guido Tarlati” nel duomo, in verità entrambi di artisti senesi.
Veniamo infine a un episodio di cronaca nera, la strage del 28 giugno 1799 a Siena, dove tredici ebrei furono trucidati durante i tumulti scaturiti per i moti antifrancesi del Viva Maria. A lungo circolò la notizia che gli orrendi delitti erano stati perpetrati dalle bande aretine, arrivate a Siena per liberare la città dall’occupante. Come hanno rivelato le ricerche d’archivio degli ultimi anni e il recupero di preziosi documenti, la strage fu invece compiuta dalla teppaglia senese, che approfittò del caos per giustiziare brutalmente coloro che venivano considerati ricchi e filogiacobini.