Aretino, 31 anni compiuti a dicembre, è il capitano dell’Arezzo che sta lottando per tornare in serie C. Laureato in scienze motorie, ha girato l’Italia grazie al pallone e l’estate scorsa è sceso di categoria, sfidando i luoghi comuni per vincere con la squadra che tifava da bambino, proprio nell’anno del centenario. “Sono un sognatore, vestire l’amaranto mi dà qualcosa in più”
Andrea Settembrini, 31 anni compiuti lo scorso 10 dicembre, è l’uomo simbolo dell’Arezzo che si sta dimenando sui campetti di periferia per riconquistare palcoscenici più consoni alla sua storia. Brutta bestia la serie D: campionato ostico, di periferia in tutti i sensi, con mille insidie e poca gloria per chi ha un blasone da rinverdire e, soprattutto, è condannato a vincere. Settembrini, maglia numero 8, fascia da capitano, ha sfidato luoghi comuni e consuetudini per imbarcarsi in questa sfida. Lui, originario di Montagnano, non ha dato peso al “nemo propheta in patria” che vale a ogni latitudine. E soprattutto, ha rinunciato al professionismo per scendere di categoria, scelta che in pochi hanno il coraggio di fare in un ambiente iper competitivo come il calcio. Adesso, con la sua vitalità da centrocampista d’assalto, capace di rubare palla, smistare il gioco e attaccare gli spazi, sta provando a guidare la squadra verso una promozione che, nell’anno del centenario, avrebbe un sapore speciale.
Tu sei aretino ma hai vissuto in diversi angoli d’Italia. Ce n’è uno che ti è rimasto dentro più degli altri?
Ho avuto la fortuna di vivere in città molto belle, da Padova a Salò a Chiavari, ognuna con dei pregi tutti suoi. Però per motivi affettivi, e perché quelli sono stati anni molto intensi della mia carriera, porto nel cuore Cittadella. E’ un paesone più che una città, vicino Padova. Le mura che circondano il centro avevano un fascino speciale, forse perché mi ricordavano quelle di Arezzo.
E invece cosa apprezzavano in giro della tua aretinità?
Che come tutti i toscani siamo sempre pronti alla presa in giro, poco permalosi, disponibili allo scherzo. E’ stata una caratteristica apprezzata in tutti gli spogliatoi in cui sono stato.
Qual è il primo ricordo legato ad Arezzo o alla tua val di Chiana che ti viene in mente?
Ce ne sono tanti. La val di Chiana per me significa il mio paese Montagnano. E allora ripenso a quando da piccolo, la domenica mattina, andavo con mio babbo a giocare al campo sportivo. Era bellissimo perché poi arrivavano i giocatori della squadra che mi facevano i complimenti e io cercavo sempre di fare bella figura. Di Arezzo invece mi tornano in mente le partite da spettatore al Comunale: fino a quando gli impegni calcistici me l’hanno consentito, non ne ho saltata una. E poi le trasferte nell’anno memorabile di mister Somma, con la promozione in serie B.
Come sei riuscito a diventare un calciatore professionista? Talento, sacrificio, fortuna: cosa ti ha aiutato di più?
Dietro c’è lo zampino di mio babbo Roberto. Non mi ha mai imposto nulla, però portandomi al campo di calcio, dall’età di 3 o 4 anni fino ai 10, mi ha fatto innamorare di questo sport. Cominciai a giocare e già a quell’età i due allenamenti alla settimana non mi bastavano. Con il lavoro, l’impegno e la dedizione si possono raggiungere grandi obiettivi, poi è ovvio che ci sono stati momenti in cui è servito anche un pizzico di fortuna. Guardandomi indietro però ti dico che non sono mai stato lì a pensare “devo diventare un calciatore professionista”. Ogni giorno andavo all’allenamento con una voglia di migliorare incredibile e questa è stata l’arma più importante. Senza tralasciare la parte fisica che devi curare molto nel calcio di oggi: l’ho fatto con molta abnegazione ma non mi ha mai pesato.
Mi racconti il tuo percorso scolastico? Tu ti sei laureato mentre giocavi a calcio: come sei riuscito a conciliare lo studio con l’attività sportiva?
È una cosa andata avanti da sola. Dopo il liceo militavo ancora tra i dilettanti e ho pensato che era giusto continuare gli studi, avere un piano B nel caso non fosse andata con il pallone. Così mi sono iscritto a scienze motorie a Perugia: mi ricordo dei sacrifici enormi per conciliare tutto e ripensandoci oggi mi chiedo come ci sia riuscito. La mattina andavo all’università, tornavo a casa, mangiavo qualcosa al volo e partivo per Piancastagnaio dove giocavo quell’anno. Fu una stagione particolare perché, nonostante non vedessi il campo con continuità, poi nei play off segnai due gol. Mi prese il Poggibonsi ed è li che è iniziata veramente la mia carriera: quando prima ho fatto riferimento a un pizzico di fortuna, mi riferivo proprio a quelle due partite degli spareggi di serie D. In cinque anni ho terminato la triennale e quando ero alla Feralpisalò è arrivata la laurea. Poi durante il lockdown mi sono buttato nella magistrale in Management dello sport, frequentando online stavolta. E’ stato più facile ma io sono una persona che quando si mette in testa degli obiettivi, cerca di raggiungerli sempre. E ce l’ho fatta.
Consiglieresti a un ragazzino di fare il calciatore?
Sì, anche se ci sono tanti pro e tanti contro, che la gente magari non percepisce. Bisogna mettere in conto diverse rinunce ma se uno ha la passione, lo fa senza problemi. Se non hai gli attributi e la personalità giusta vieni risucchiato e questo vale per tutte le professioni: non ti regala niente nessuno.
Al di là delle frasi fatte e della retorica, cosa significa oggi per te indossare la fascia di capitano dell’Arezzo?
E’ un onore e vorrei portarla più a lungo possibile, ritornando con questa società e con questi tifosi dove meritiamo di stare. E’ pure una responsabilità, devi dare l’esempio e io lo sto facendo con molta naturalezza. Ho commesso qualche errore ma ritengo di essere migliorato sotto l’aspetto caratteriale perché da capitano hai l’obbligo di tenere un comportamento idoneo. Devo cercare di tenere a bada la mia foga agonistica, che è stata la mia arma principale da quando gioco a calcio. Non è facile ma ho l’obbligo di riuscirci.
Il 2023 è l’anno del centenario. Come ti immagini la festa per un evento del genere?
Toccando ferro, dico che me la immagino come tutti. In categoria superiore. Ma c’è quasi un intero girone di ritorno da giocare, quindi voglio stare concentrato su questo.
Hai avuto da ragazzino il tuo idolo amaranto?
Certo che sì. Floro Flores era quello che mi piaceva di più. Un talento incredibile, segnava gol bellissimi. Mi piaceva da matti.
Una domanda che sta angustiando generazioni di sportivi: perché l’Arezzo non è mai riuscito a salire in serie A?
Me lo sono chiesto anch’io e non so dare una risposta precisa. Il calcio, purtroppo o per fortuna, non è una scienza esatta. Di sicuro per farcela serve la giusta prograamazione. Con Mancini alla presidenza poteva essere il periodo buono, purtroppo la retrocessione dalla B alla C cambiò tante cose.
Da buon Sagittario sarai uno idealista, sognatore e con tanti progetti in testa. Come ti immagini di qui a dieci anni?
Mi rivedo in queste caratteristiche. Sono sempre stato un sognatore e sono tornato a giocare in amaranto proprio per questo. Tra dieci anni mi vedo ancora ad Arezzo, dove ho anche comprato casa, magari con un ruolo in società. Però prima voglio godermi il presente da calciatore che, come pensavo da bambino, è il mestiere più bello di tutti.