Settant’anni di carriera alle spalle, un brand che vuol dire qualità, il talento straordinario nel creare abiti di classe. La storia di Carlo Donati, maestro artigiano della sartoria, si intreccia con quella della città dal 1962: passione, abilità, stile mescolati insieme all’amore per Arezzo. “Tante volte mi hanno offerto di lavorare altrove, in Italia e all’estero, ma sono sempre rimasto qui. E sono in pace con me stesso”.
L’ago e il filo, il metro e gli occhiali, il vestito impeccabile e l’aria serena di chi ha mescolato la vita e il lavoro fino a renderli una cosa sola, un orgoglio, un fiore all’occhiello. Carlo Donati ha abbracciato la professione da ragazzino e se l’è goduta fino in fondo. La verità è che non ha scelto di fare il sarto ma ha semplicemente assecondato le pulsioni del cuore. Dal 1962 in piazza Risorgimento ad Arezzo, con quasi settant’anni di carriera alle spalle e un brand che vuol dire qualità, commendatore e cavaliere della Repubblica, potrebbe ritirarsi e dedicarsi agli amati viaggi, alle buone letture, al meritato riposo. Invece no.
Carlo, cos’è che la trattiene dentro la sua boutique?
Sartoria, prego.
Sartoria. Non le è ancora venuta voglia di staccare, di fermarsi dopo tanti anni?
No. Mi emoziono come quando ho cominciato ed è questa la molla che mi tiene su. Quando metto l’abito nuovo sul manichino, provo le stesse sensazioni degli inizi. E sto bene.
Per quanto ancora andrà avanti?
Ah, questo non lo so. Ma se continuo è per la sartoria, non certo per il commercio.
Però lei oggi ha tre negozi, non uno solo. Non si sente un commerciante, un imprenditore?
No, mi sento ciò che sono sempre stato: un artigiano. Tirare fuori la creatività mi fa sentire vivo e mi spinge sempre un po’ più in là. Il merito è anche di mia moglie Marisa.
Perché?
Perché è sempre stata al mio fianco, ieri come oggi. Mi ha sostenuto, incoraggiato, spalleggiato. Siamo sposati da mezzo secolo e lo posso dire: le donne hanno una marcia in più.
Qual è il suo stato d’animo in questo momento: c’è ancora spazio per una certa inquietudine o prevale la serenità?
Sono in pace con me stesso. Ho visitato tanti posti in giro per il mondo, ho due figli, riesco a ritagliarmi il tempo per leggere le riviste di moda e la passione per il lavoro non mi ha mai abbandonato. Con il cuore e con le mani si possono plasmare sentimenti forti.
Uno come lei ha ancora un obiettivo da raggiungere?
Mi dicono che ispiro fiducia e questo mi basta, è il più bel complimento per me.
C’è un momento preciso in cui tutto è cominciato?
Sartoria Argento di via Roma, 1956. Sono entrato da apprendista, ci sono rimasto sei anni. Tra i clienti c’erano personaggi aretini molto noti a quell’epoca. Ricordo che li guardavo con un mix di soggezione, ammirazione e deferenza. Mi domandavo se ce l’avrei mai fatta, un giorno, a farli entrare dentro una sartoria tutta mia.
Beh, c’è riuscito.
Ma non è stato facile. Ho faticato, ho studiato, ho lavorato. A 27 anni ero presidente del gruppo giovani di Confartigianato, poi sono diventato presidente provinciale e membro di giunta della camera di commercio. Lì ho conosciuto Fabio Inghirami, grande amico e grande maestro.
Eppure c’è chi non ama gli oneri dell’associazionismo. Troppo noioso dicono in tanti, troppa rappresentanza e poco costrutto. Lei la pensa diversamente mi pare.
Sì, perché dentro le associazioni c’è la vita. Ho frequentato tante persone, ho imparato tante cose. A 35 anni sono entrato all’accademia dei sartori, il più giovane in assoluto. Ancora adesso sono presidente nazionale dell’associazione sarti e stilisti. Ma una delle soddisfazioni più belle è la scuola europea di alta sartoria a Roma: faccio il docente, tengo lezione ai ragazzi che vogliono imparare il mestiere.
Perché c’è poco ricambio generazionale per questa professione? Nemmeno i suoi figli hanno seguito la stessa strada.
Scelte personali, di vita. E poi perché è un lavoro che richiede talento, applicazione e molto sacrificio. Oggi non va di moda.
Glielo dice questo ai ragazzi della scuola?
Dico loro di coltivare la passione, senza quella è meglio che pensino a fare altro. Gli istituti professionali dovrebbero servire a formare forza lavoro, invece vedo che non è così. Ah, serve anche la testa, ma in questo caso non c’è scuola che tenga. O ce l’hai o non ce l’hai.
Le tre qualità del buon sarto quali sono?
Manualità, intuito, feeling con la clientela. Aggiungo la lungimiranza: se uno resta ancorato al passato e non ha l’abilità di rinnovarsi, viene stritolato.
Com’era Arezzo quando ha aperto la sartoria Donati?
Era una città in pieno boom, tutta da costruire, da immaginare, da vivere. E con decine di sarti in giro per la provincia.
Oggi quanti siete?
Pochi. Io ho una clientela affezionata, non mi lamento. Ma ogni volta che si presenta qualcuno intenzionato a farsi un vestito su misura, cucito addosso a lui, mi si apre il cuore. Sa come si dice in questi casi?
Come?
Il vestito su misura ingrassa con me e dimagrisce con me.
Arezzo del 1962 era migliore dell’Arezzo di oggi?
Non lo so, non voglio cadere nel tranello della nostalgia. Di sicuro spuntavano negozi e botteghe a ogni angolo, il centro storico fremeva di attività. I tempi sono diversi, non saprei dire se migliori o peggiori. Quello che mi spiace è che non siamo riusciti a valorizzare le nostre bellezze artistiche, culturali, paesaggistiche. E ne abbiamo un’infinità. Un cliente americano mi diceva sempre che l’Italia è il paese più bello del mondo. E che la Toscana è la regione più bella d’Italia. Io mi permetto di aggiungere che Arezzo è una delle città più belle della Toscana. Tant’è che agli stranieri regalo sempre libri sulla storia aretina.
A proposito di aretini. Sono cambiati nel tempo o sono sempre gli stessi?
Tutto cambia: il mondo, la gente, anche noi. Un po’ botoli ringhiosi lo eravamo e lo siamo, anche se a me lascia perplesso questa globalizzazione del possesso. Abbiamo tutto e tutto ci sfugge in un attimo. Non mi piace granché.
Prima ha ricordato il centro storico degli anni sessanta. Quello di oggi è in crisi irreversibile o si può fare qualcosa per rivitalizzarlo?
E’ una battaglia che si può vincere solo se si affronta insieme. Shop online e grande distribuzione stanno distruggendo tutto: il lavoro diminuisce, la vita è cara, il sistema non protegge nessuno. Comprare un abito con un click sul telefono è veramente un progresso? Per me no, per me è un impoverimento.
Lei il centro storico non l’ha mai abbandonato. Come ha saputo resistere?
Io non ho mai lasciato Arezzo perché amo questa città, nel bene e nel male. E poi sono uno spirito libero, non avrei potuto fare il dipendente: ho ricevuto più di un’offerta da aziende importanti, in Italia e all’estero. Ma lavorare per l’azienda che ho creato io è tutta un’altra cosa. E sono rimasto qua.
In una città di provincia.
In una città tra le più affascinanti e importanti d’Italia.
La sartoria, poi il negozio di abbigliamento per donna, quindi quello casual e per un target giovane. Rifarebbe queste scelte?
Sì. L’ho detto prima: tutto cambia intorno a noi. Se non abbiamo la prontezza di assecondare le tendenze, prima o poi paghiamo il conto.
Come si veste la gente nel 2020? Ha stile e buongusto oppure deve metterci le mani lei, in tutti i sensi?
Premessa: io sono legato a un concetto classico del buon vestire. Adesso gli accostamenti sono più estrosi, più liberi e sportivi. In certe occasioni, secondo me, non si può prescindere da un vestito elegante, da uno stile impeccabile e da un aspetto decoroso.
Richieste folli da parte dei clienti ne ha mai avute?
Altro che, di abiti stravaganti ne abbiamo cuciti a iosa. Il cliente che vuole convincerti a fare come dice lui, a scegliere il tessuto che dice lui, c’è sempre stato. Ma la mia sicurezza nell’obiettare è sempre stata la mia forza e il freno migliore per certe pretese sopra le righe. A ognuno il suo mestiere, la penso così.
Quanto tempo ci vuole per avere un abito su misura?
Dipende. In media riusciamo a consegnare in venti o trenta giorni.
Quando le dicono che il suo è un settore di nicchia, come la prende?
La sartoria artigianale non è di nicchia, non l’ho mai pensato e i fatti mi hanno sempre detto che non è così. E’ chiaro però che un vestito cucito addosso, su misura, con un bel tessuto, ha il suo costo.
Carlo, complimenti per il suo entusiasmo. Come vuole chiuderla questa intervista?
Con un ricordo e un ringraziamento.
Prego.
Un pensiero affettuoso e un grazie ai miei collaboratori, comprese Assuntina e Antonella. Hanno lavorato con me e per me da quando avevano 14 anni. Oggi sono in pensione, saluto tutti con l’affetto che si meritano.