All’inferno e ritorno: Daniele Bracciali, riabilitato dopo l’assoluzione nel processo scommesse, è tornato vincente nel doppio in un torneo Atp e vive una seconda giovinezza. Ad Up si racconta con serenità: “Il mio esordio? A 17 anni, in Austria. Avevo perso l’aereo, ho rischiato di non giocare”. E poi la scalata al ranking mondiale, il grande talento, i passaggi scanzonati, l’amicizia con Federico Luzzi. Nel 2015 l’inizio dell’incubo: “Molte persone si sono allontanate, questa storia mi ha insegnato quali siano quelle su cui contare”. Adesso si gode il momento, i prossimi tornei, il figlio Niccolò. Con la calma del marinaio che ha superato la tempesta
Ha dovuto posare la racchetta, è andato all’inferno ed è ritornato. La traversata del deserto giudiziario, la vittoria nelle aule di tribunale e il trionfo, di nuovo, a 40 anni, sul campo. Il novello Orfeo, con un finale decisamente più lieto da raccontare, è il tennista Daniele Bracciali, che spiega con pacatezza l’ultima delle sue vite, dopo tre anni di ingiusta sospensione dai circuiti Atp per il caso scommesse. Una vicenda che l’ha scosso, fiaccato, amareggiato. Non spezzato. Il “Braccio” (di ferro) ha resistito fino al pronunciamento dello scorso gennaio: assoluzione con formula piena a Cremona e rientro tra i “pro”. Da allora ha partecipato a tre Slam e vinto il settimo torneo in carriera, a Gstaad. Nessun artificio letterario: la storia sportiva di Bracciali, oltre l’epilogo alla Conte di Montecristo, è di per sé sapida e succulenta. Fatta di smisurato talento, passaggi scanzonati, racchette spaccate, imprese eroiche. Il confronto con tutti i big del nostro tempo, la vetta del 49esimo posto nel ranking mondiale e soddisfazioni mica da poco (vero, Nadal?). E poi: l’affetto per Carlo Pini, indimenticato maestro del tennis d’Arezzo, e per Federico Luzzi, campione, coetaneo, quasi un fratello, che la malattia ha ucciso a 28 anni. Qua e là, spruzzate di poesia: l’amore per Arezzo, per l’Arezzo, per la sua Quarata. E un figlio, Niccolò, avuto da Elisa: lampo di luce che ha rischiarato il buio della squalifica.
Daniele, partiamo dal tuo primo vagito tennistico. Quando?
“Avevo 5 anni, credo. Ma da piccolo mi piaceva di più il calcio”.
E con quale squadra hai iniziato?
“San Domenico, poi Quarata. Ero bravino, difensore centrale. Ho giocato fino a che ho potuto”.
Cresciuto col pallone tra i piedi e la racchetta in mano, ha lasciato rotolare via il primo, quando il campo da calcio e quello da tennis, complementari fino ad allora, erano diventati inconciliabili.
“E’ stato mio babbo, che amava il tennis, a spingermi verso questo sport, io preferivo il pallone. A 14 anni mi allenavo al centro federale di Cesanatico. C’erano Luzzi, Galimberti, Starace. Quando tornavo ad Arezzo giocavo a calcio. Poi ho dovuto scegliere”.
E nel 1995, a soli 17 anni, eccoti all’esordio in un vero torneo Atp: Sankt Pölten. Emozioni?
“Giocai per una serie di fortunate coincidenze. Ottenni la wild card, perché chi ne aveva diritto si ritirò all’ultimo. Persi l’aereo. Arrivai in campo 10 minuti prima del match. Non ebbi nemmeno il tempo di emozionarmi. Tra l’altro giocai bene contro un gran bel tennista come Rodolphe Gilbert: persi 6-3, 6-4, lottando”.
Sfrontato, talentuoso. E grande tifoso amaranto. Una volta, nel 2007, ti sei presentato al Foro Italico contro Rafael Nadal indossando la maglia dell’Arezzo con il numero 83 di Floro Flores.
“Sì, è vero. Peccato che il telecronista disse che era la maglia del Livorno”.
Sull’altalena dei risultati, col tempo sei riuscito a dosare impeto e freddezza. Nel primo decennio del nuovo millennio hai colto tra i successi più esaltanti della tua carriera. Qual è il ricordo che ti tieni più stretto?
“Ce ne sono tanti. Il primo successo in carriera in un torneo Atp, l’unico in singolare, in finale sulla terra rossa di Casablanca contro il cileno Massu nel 2006. Oppure il match di Wimbledon nel 2005 contro Roddick, sospeso per oscurità. Persi dopo una partita combattuta al quinto set. Roddick, numero 2 del tabellone, che si arrese in finale al numero 1 al mondo Federer. Piacevole ricordo è poi il doppio con la Nazionale azzurra in Coppa Davis a Torre del Greco, sempre nel 2005: in coppia con Galimberti vincemmo un match straordinario al quinto set contro la corazzata spagnola Feliciano Lopez-Rafa Nadal”.
Nel 2008 hai perso un grande amico, compagno di racchetta, come Federico Luzzi. Anche lui aretino, ucciso da una leucemia fulminante. Qualche anno dopo se ne è andato Carlo Pini, “il” maestro del tennis ad Arezzo, con cui eri cresciuto. Che ricordo hai di queste figure?
“Carlo era molto protettivo. Mi ha fatto da secondo babbo. Grande allenatore, grandissima persona: sempre disponibile, profondo. Eppure scherzoso. Con Federico avevo un rapporto di amicizia che durava da venti anni. Che dire, eravamo legatissimi. Lo riportai io in macchina ad Arezzo, quando accusò i primi malesseri. La malattia lo spense in pochi giorni. Conservo il ricordo di momenti splendidi passati insieme. Da quando non c’è più, cerco di ricordarmi di vivere pienamente ogni momento che mi è concesso”.
E’ poi iniziata un’altra tua vita tennistica, quella di doppista. Che ti ha portato in dote altri sei trionfi Atp. Come è maturata questa tua specializzazione?
“Avevo già giocato e vinto in doppio, dopo il 2008 diventò naturale puntare su questa disciplina. Ero reduce da un infortunio, eventualità che mi indirizzò verso una scelta di gioco meno stressante fisicamente. E con l’età sono diventato più esperto”.
Un successo nel 2005 con Galimberti, poi quattro trionfi in meno di un anno tra l’ottobre 2010 e il settembre 2011. Due di questi ottenuti con Potito Starace. Più di un amico.
“Ci sentiamo ancora, anche adesso che lui si è ritirato. Ci siamo allenati per anni alla Blue Team ad Arezzo. E sfortunatamente abbiamo condiviso anche il processo per scommesse”.
Il calvario è iniziato nel 2015: radiazione dalla Federtennis “per aver alterato l’esito di alcuni incontri al fine di realizzare guadagni illeciti tramite scommesse”. Una squalifica ridotta poi a 12 mesi. Ma oltre ai processi sportivi, c’è stato quello della magistratura ordinaria di Cremona. Tre anni di lontananza dai campi, poi, alla vigilia del 40esimo compleanno, l’assoluzione.
“E’ stata la fine di un incubo. L’Atp mi aveva sospeso per il semplice fatto di essere imputato. Ho perso tre anni di carriera, senza contare le spese per difendermi e il danno di immagine. Sono rimasto sorpreso dalla posizione di Coni e Fit, che si sono costituiti parte civile nel processo, come se non avessero fiducia nei loro tribunali sportivi, che già mi avevano assolto. Ho rallentato, mi sono dedicato alla mia accademia (“49 accademia training”, il numero è un omaggio al best ranking Atp raggiunto da Bracciali, nda), al Circolo Tennis Arezzo e alla famiglia. Sono rimasto deluso da alcuni aretini, grandi amici che trenta secondi dopo l’esplosione del caso erano già a chilometri di distanza. Ecco, questa storia mi ha insegnato quali siano le persone davvero importanti per me”.
Con che spirito hai vissuto la sospensione e i processi?
“Ero sereno, consapevole di non aver mai fatto nulla di male. Ma poi ci sono le udienze, lo stress continuo. E’ stato un periodo in cui ho dormito poco. Per fortuna, la mia famiglia mi ha sostenuto e mi ha dato la forza di reagire. E poi è nato Niccolò”.
Da quando sei diventato professionista, sei stato una trottola. Sempre in giro per il mondo. Ma il legame con Arezzo, non lo hai mai troncato. Sei tornato quando hai potuto. Nel tuo futuro, oltre al tennis, c’è ancora la tua città?
“A 40 anni il mio desiderio è quello di rimanere il più possibile a questi livelli. Arezzo è casa mia e non mi allontanerò di certo. Qui ho i miei amici e i miei affetti. Adoro il centro storico, amo la frazione in cui sono cresciuto e dove sono tornato a vivere, la mia Quarata”.