Aretina di nascita, Francesca ha una laurea in Scienze biologiche e un dottorato di ricerca in Genetica molecolare umana all’università di Pisa. Dopo alcuni anni di esperienza come ricercatrice nel campo delle malattie neurodegenerative nel Centro di ricerca universitario di Pisa, è entrata nel mondo farmaceutico, in Dompé prima per poi passare a Sanofi Pasteur MSD nel 2007 come Vaccine Specialist. Da allora si è sempre occupata di vaccini con ruoli di crescente responsabilità e complessità, alternando incarichi a livello territoriale o centrale, dapprima sul fronte commerciale e poi in ambito prettamente medico, consolidando quindi un’articolata esperienza nell’area dell’immunizzazione e della prevenzione.
Sanofi è un’azienda multinazionale a capitale francese che conta oltre 100.000 collaboratori in circa 90 Paesi e 69 stabilimenti produttivi. In Italia è una delle principali realtà industriali del settore con una presenza radicata sul territorio nazionale, un fatturato di circa 1,4 miliardi di euro nel 2021 e oltre 2.000 dipendenti. È presente con la sede principale a Milano e un ufficio istituzionale a Roma. L’azienda fornisce un importante supporto all’economia del Paese grazie all’intensa attività dei suoi siti produttivi: Anagni (FR), Origgio (VA), Scoppito (AQ) e Brindisi. Attraverso la ricerca, la produzione e la distribuzione di farmaci, trasforma l’innovazione scientifica in soluzioni che migliorano la salute e la qualità di vita delle persone. Grazie alla presenza nei vaccini, nell’automedicazione e in altre aree terapeutiche, accompagna milioni di italiani nel proprio percorso di salute e benessere. Il suo portafoglio copre tutta la filiera del farmaco dalla prevenzione al trattamento, attraverso le sue Business Unit General Medicines, Specialty Care (Sanofi Genzyme), Vaccini (Sanofi Pasteur) e Consumer Healthcare.
In questi anni, Francesca si è occupata di vaccini per neonati, adulti e viaggiatori, coordinando diversi progetti che hanno visto la collaborazione del mondo dell’Igiene e della Clinica, a livello nazionale e internazionale, e che hanno contribuito a consolidare una cultura della vaccinazione basata sull’evidenza clinica e il valore della vaccinazione come primaria fonte di prevenzione individuale e collettiva. Fondamentale il suo contributo nel consolidamento dell’utilizzo del vaccino antinfluenzale quadrivalente classico e del vaccino antinfluenzale quadrivalente ad alto dosaggio per gli anziani nel nostro Paese. «Sono certo che Francesca avrà la capacità di guidare il team medico di Sanofi Pasteur Italia verso le sfide di salute pubblica con competenza, sensibilità ed entusiasmo. Mai come oggi serve una visione aperta a nuove forme di sinergia e multidisciplinarietà», ha detto di lei Mario Merlo, general manager di Sanofi Pasteur in Italia. Quarantasette anni, sposata e con due figli, coltiva da sempre una grande passione per i viaggi e l’Italia. Oggi guida un appassionato team di nove persone.
Medical Head di Sanofi Pasteur, cioè a capo della direzione medica della divisione vaccini di Sanofi. Un ruolo chiave in un momento storico, con quali speranze sanitarie e con quali obiettivi scientifici?
«La nostra divisione si occupa della ricerca, dello sviluppo e della produzione dei vaccini, in questo momento pandemico una divisione cruciale. Dal punto di vista prettamente personale definirei questo nuovo incarico entusiasmante, stimolante e, al tempo stesso, frenetico data l’attualità del tema e, se vogliamo, anche la sua urgenza. Inoltre, non dobbiamo dimenticare che Sanofi Pasteur è già leader nella produzione di vaccini antinfluenzali per tutte le fasce d’età. La nostra missione è quella di aiutare, salvare vite umane, perché è questo che fanno i vaccini».
Che differenza c’è tra questo ruolo e quelli ricoperti in precedenza, il primo all’università di Pisa e il secondo in Dompé?
«Alla mia laurea in Scienze biologiche è seguito un dottorato in Genetica molecolare umana all’università di Pisa. Poi ho abbandonato la parte legata alla ricerca per approfondire la conoscenza del mondo farmaceutico: partendo dalla direzione commerciale e affacciandomi poi a quella medica, più legata al mio percorso formativo. È stato un percorso particolare che ha contribuito a creare quella che sono adesso, da una parte la passione per lo studio, la preparazione e la ricerca, dall’altra una concezione operativa. In Sanofi tutto questo si è unito e sintetizzato con una visione strategica, di governance, ad ampio spettro».
In questo periodo abbiamo riscoperto, chi più chi meno grezzamente, ricerca e scienza. Quanto sono e sono state importanti nell’evoluzione dell’umanità?
«Possiamo dire che hanno fatto la storia dell’umanità, in termini di miglioramento della qualità della vita. La scoperta degli antibiotici, così come quella dei vaccini hanno allungato le nostre vite, dimostrando che la scienza e la ricerca sono alla base del vivere bene e in salute. Un esempio? Grazie al vaccino antitetanico si è ridotta la mortalità per tetano neonatale, una piaga per tanti Paesi. Hanno permesso, i vaccini, l’eradicazione del vaiolo, della poliomielite e il controllo di molte malattie infettive. È celebre la frase di un celebre vaccinologo quando affermava che i vaccini sono vittime del loro stesso successo; contribuendo a salvare vite umane e facendo scomparire molte malattie hanno abbassato l’attenzione nei loro riguardi».
Se affermiamo che la ricerca è donna abbiamo fotografato lo stato dell’arte o abbiamo una percezione distorta della realtà?
«Se guardiamo all’Italia direi che è una fotografia dello stato dell’arte. Su dieci ricercatori cinque sono donne e in Europa siamo secondi solamente alla penisola Iberica in quanto a presenza femminile nell’ambito della ricerca. Basta vedere quante ragazze si iscrivono alle facoltà scientifiche».
Nella scienza e nella ricerca medico-scientifica quanto pesa il gender gap e sotto quali forme si nasconde?
«Si nasconde in due aspetti: la differenza salariale e la copertura delle posizioni apicali. Per quante donne sono impiegate nella ricerca ancora troppe poche occupano posizioni apicali».
Quali sono le tre qualità professionali che devono caratterizzare una Medical Head della direzione medica della divisione vaccini di Sanofi?
«Affidabilità, preparazione e professionalità. Queste sono le impronte che vorrei dare. L’affidabilità, che significa prima di tutto qualità dei prodotti. La preparazione, frutto di uno studio e una conoscenza delle cose continui. La professionalità, per comunicare correttamente l’azienda all’esterno. Aggiungerei l’agilità: essere veloci a rispondere ai bisogni di salute che arrivano dal mondo circostante».
E quelle umane?
«La gentilezza. Si parla molto di ‘manager gentile’. Vorrei creare e mantenere sempre quella dimensione umana che poi è fondamentale per un ambiente professionale che ti gratifichi».
Se le riconosce tutte?
«La mia è un’ambizione, una tensione continua. Tutte queste qualità vanno affinate e messe in pratica tutti i giorni, perché quando si perseguono degli obiettivi importanti l’aggressività è dietro l’angolo. Diciamo che il seme c’è, bisogna annaffiarlo tutti i giorni».
Sanofi ha lavorato su due vaccini contro il Covid-19, a che stadio si trovano e quali sono le differenze più rilevanti?
«Il primo, vale a dire quello in fase più avanzata, è quello in collaborazione con GSK, in fase di sviluppo. Un vaccino proteico adiuvato con tecnologia DNA ricombinante che si basa sull’esperienza della piattaforma innovativa di Sanofi a DNA ricombinante, appunto: una tecnica di ingegneria genetica che abbiamo già ampiamente utilizzato per i vaccini antiinfluenzali. Stiamo testando la sua efficacia clinica, fase 3, e a fine anno (2021, ndr) l’EMA dovrebbe autorizzarlo. Sempre su questo fronte lavoriamo su un vaccino booster, vala a dire, destinato a essere utilizzato come richiamo dopo una prima immunizzazione. Parallelamente, abbiamo sviluppato un secondo vaccino con tecnologia mRNA, i cui risultati di fase 1/2 sono risultati molto positivi e per il quale, però, il gruppo ha deciso di stoppare lo sviluppo. Poiché i futuri bisogni di salute pubblica al momento della commercializzazione sarebbero già soddisfatti anche grazie al nostro impegno produttivo con gli attuali vaccini mRNA di Moderna e BioNTech/Pfizer: nei nostri stabilimenti in Germania, Francia e Stati Uniti, a oggi, abbiamo prodotto ‘per terzi’ più di 500 milioni di dosi. Sanofi preferisce, invece, accelerare sui vaccini mRNA di prossima generazione e usare questa tecnologia performante per nuove sfide di prevenzione, come ad esempio quella contro l’influenza».
Sono già stati rimodulati sulle varianti attualmente dominanti?
«Quello proteico, più vicino alla commercializzazione, è stato modulato sulla variante Beta che, è stato scientificamente dimostrato, produce anticorpi capaci di neutralizzare anche le altre varianti, come la Delta per intendersi. Secondo i nostri studi, questo vaccino garantisce la produzione di anticorpi verso le varianti in circolazione e altre emergenti».
Terza dose e immunità. Il vaccino anti-Covid diventerà una routine annuale?
«Non lo sappiamo con certezza. Siamo ancora dentro una pandemia, in una condizione emergenziale. L’obiettivo attuale è quello di implementare la campagna vaccinale e capire, sul lungo periodo, quale può essere la protezione anticorpale. Adesso, come indica l’OMS, ci sono due cose da fare, da una parte vaccinarsi, dall’altra studiare attentamente i dati per capire quale futuro, immediato e meno, ci attende. La ricerca scientifica si muove con i dati non con la sfera di cristallo».
Trovati i vaccini contro la pandemia crede che si debba trovare un modo nuovo di raccontare la scienza e i suoi percorsi?
«Non esiste un modo nuovo, esiste solamente un modo chiaro, trasparente e corretto di comunicare. Ci vuole autorevolezza per non disperdere e distorcere le informazioni che arrivano dalla scienza e dalla ricerca. Una comunicazione basata sulle evidenze che nasca da fonti autorevoli, altrimenti la comunicazione diventa un’opinione senza alcuna base scientifica. Non siamo tutti sullo stesso piano. Da una parte c’è il cittadino che deve essere informato. Dall’altra la ricerca scientifica che deve utilizzare canali autorevoli e coerenti per farlo».
Cosa vi ha insegnato e cosa ci dovrebbe suggerire la pandemia che stiamo vivendo?
«Da un punto di vista prettamente professionale a essere più agili nelle modalità d’interazione quotidiana. Abbiamo dovuto reinventare il modo di dialogare tra di noi e con gli interlocutori esterni, portando comunque avanti tutte le nostre attività. Da un punto di vista comunicativo, come accennavo sopra, credo che alcuni passaggi debbano essere comunicati in maniera differente, altrimenti rischiamo l’infodemia e tutti i mali derivati. L’impatto sul lavoro dello smart working, tornando al primo punto, ha implementato la politica delle risorse umane in Sanofi, con un’attenzione maggiore alle esigenze dei dipendenti».
Attualmente il settantacinque per cento dei vaccini è stato inoculato in dieci Paesi, come si potrà coprire il resto del mondo?
«In Sanofi ci stiamo impegnando, sia a livello governativo che con organizzazioni non governative, per garantire la distribuzione dei vaccini a livello globale; non solo i Paesi industrializzati ma anche quelli più poveri. Per quello che ci riguarda siamo in contatto con la comunità sanitaria internazionale e con Covax Facility, organizzazione che gestisce il meccanismo di approvvigionamento mondiale dei vaccini contro il Coronavirus, a guida OMS. Un altro ente di cooperazione con il quale stiamo collaborando è il GAVI Alliance, che si occupa dell’immunizzazione, contro varie malattie, dei popoli che abitano le zone più povere del pianeta. Stiamo facendo la nostra parte in tutto questo».
Cosa è per lei Arezzo?
«Arezzo è casa. Qui sono cresciuta, qui trovo i miei affetti e la famiglia».
Cosa le piace di più e di meno della sua città?
«È una città nella quale si vive bene, la qualità della vita è soddisfacente, direi anche accogliente. Credo che potrebbe essere maggiormente valorizzata dal punto di vista turistico per il suo grande patrimonio culturale e devo dire che, se da piccola nessuno la conosceva, oggi è stato fatto un passo in avanti».
Tre luoghi cui è particolarmente legata e perché?
«Piazza Grande, perché la ritengo il cuore della città, quella parte che meglio la rappresenta. I portici del liceo classico, la mia scuola e dove ho conosciuto il compagno della mia vita. Il Corso Italia».
Hobby e passioni fuori dal lavoro?
«Cucinare e viaggiare, molto. Mi piace la convivialità, anche se con la pandemia abbiamo dovuto limitarci».
Si dice «fai il lavoro che ti piace e non lavorerai mai un giorno in tutta la vita», è così anche per lei?
«In tutto il mio percorso ho messo grande passione, dallo studio al lavoro. È una mia caratteristica. Non dico che non senta la fatica, ma con la passione te la metti più facilmente dietro le spalle, soprattutto in un percorso come il mio».
Anni di studio e di lavoro, se si guarda indietro cosa vede?
«Impegno, tanto impegno. La dedizione alle cose, perché quando si prende un impegno lo si deve portare a termine e questa è una rigidità che ho trasferito ai miei figli».
Un compagno, due figli e un’equipe di nove persone, quale di questi tre è il rapporto più facile da gestire?
«Sono rapporti che, secondo me, seguono dinamiche simili: la gestione dell’altro, del capitale umano. Come genitore, per esempio, devi essere autorevole ma avere anche un ruolo di cura. Con il dipendente lo stesso, devi essere autorevole ma devi sapere anche ascoltare i bisogni degli altri. Così vale per il compagno. La parola d’ordine è equilibrio».
Cosa direbbe oggi a una ragazzina di tredici anni che deve scegliere la scuola superiore?
«Non è facile, perché le tredicenni di adesso sono molto diverse da quando lo ero io. Seguire quello che piace, anche se a tredici anni è difficile avere una passione che brucia dentro. Diciamo che bisogna cercare di capire se c’è un’attitudine e se ci piacerebbe impegnarsi per declinarla. Nella vita ci sono cose che dobbiamo fare comunque e ci sono cose che ci piace fare, in questo caso dobbiamo capire se possono diventare un’opportunità. Quella può essere la miccia che un giorno la scintilla farà brillare. Bisogna scoprire dove e come siamo capaci a dare il meglio di noi stesse».
Cosa direbbe, invece, alla Francesca bambina?
«Direi brava. Il percorso parla da sé, ma è un dirsi brava per continuare su questa strada, non si è mai arrivati e si deve continuare a dare il meglio di sé. L’asticella è sempre più alta».
Ha più fiducia nel futuro della scienza o in quello dell’umanità?
«In entrambe. Devono andare di pari passo, non possono fare l’una a meno dell’altra. Ci deve essere sempre un bene comune che guida la scienza, la quale lavora per migliorare la salute e quindi la vita delle persone. Devono proseguire mano nella mano».