E’ uno dei personaggi iconici del Saracino, secondo per fascino soltanto ai giostratori. E’ lui, con la sua voce inconfondibile e rassicurante, a scandire i tempi della manifestazione, indirizzando umori e stati d’animo dei quartieri. Nel 2014 ha raccolto il testimone del padre e domenica, finalmente, tornerà sul pulpito: “Non vedo l’ora, la piazza è un’emozione unica”
I tempi della Giostra li scandisce lui. Ugola potente, voce inconfondibile e rassicurante. Se parla l’araldo, vuol dire che la festa è in corso, le bandiere sono al vento e in giro si va con il foulard. Tra i personaggi della rievocazione storica, è secondo per fascino soltanto ai giostratori. Per il resto se la gioca con tutti, compresi rettori, capitani, armigeri e fanti del Comune. Con il cavallo rampante in bella mostra sul costume rosso, nero e bianco, l’araldo è l’unico (fatta eccezione per il regista con la sua brevissima intro) armato di microfono e sono le sue parole a indirizzare umori e stati d’animo di quartieri e quartieristi.
Francesco Chiericoni, figlio d’arte, di professione avvocato, ricopre questo ruolo iconico dal 2014. Suo padre aveva parlato dallo stesso pulpito nei quarant’anni precedenti, tant’è che intere generazioni di aretini sono cresciute a suon di cinque, lance spezzate e lance perse, accompagnate dai proclami della famiglia, destinata a essere ricordata in eterno negli annali giostreschi.
“La veste dell’araldo mi resta appiccicata addosso tutto l’anno. Per molte delle persone che incontro, io sono quello che recita i punteggi della Giostra. Lo prendo come un riscontro positivo, avverto grande affetto nei miei confronti”.
Il domandone di quest’anno è: giusto correre Giostra con tutte le limitazioni anti covid? O era meglio rimandare a tempi migliori?
“Secondo me i pro sono superiori ai contro. C’era tanta voglia di normalità e la normalità per noi aretini significa anche Saracino. Certo, ci vorranno cautela e buonsenso, ma la Giostra è mancata moltissimo. Mi spiace solo che sarà una festa un po’ strozzata, che tanti bambini non potranno vederla dalla piazza”.
Sarà una piazza diversa però. Meno gente, meno entusiasmo.
“Meno gente è vero, meno entusiasmo non credo. Alla cerimonia di estrazione delle carriere ho avvertito voglia di divertirsi, di vivere vecchie emozioni. E le persone erano tutte con la mascherina. Per quanto mi riguarda, infilarmi di nuovo il costume è stato bello bello”.
Fosco Balestri, il maestro di tuo padre, in Giostra fece l’araldo, il regista, il maestro di campo. Ti è mai venuta la tentazione di cambiare ruolo?
“Per adesso no. L’araldo è un ruolo istituzionale, super partes e mi piace così. Per fare il maestro di campo poi serve una sicurezza a cavallo che io non ho ancora. La Giostra è parte della mia vita e, se me lo chiedessero, andrei anche a strappare i biglietti”.
A proposito di tuo padre Gianfrancesco. Quando hai preso il suo posto, ti riempiva di consigli. Adesso come va?
“A mio padre devo tutto. All’inizio mi teneva sotto una campana di vetro, è vero. Ora è diverso, vado da solo, ho padronanza del compito. Poi i consigli me li dà lo stesso e fa bene, non si finisce mai di imparare”.
Consigli di che tipo?
“Raccomandazioni generali. L’errore peggiore è distrarsi. Se perdi la concentrazione, addio. E mi ha sempre detto di leggere i testi, di non improvvisare”.
Non più d’usati onori aure cortesi… La disfida di Buratto alla città di Arezzo immagino che la saprai a memoria.
“La so a memoria fin da bambino. Però la leggo perché mi aiuta a dare il tono giusto, l’enfasi che serve in quel momento. Considera che c’è sempre il rischio di qualche parola che ti fa impappinare. Protettrice per esempio è rischiosa, devi pronunciarla bene. E’ per questo che provo sempre la lettura dei testi, specialmente di quelli che cambiano ogni volta come le dediche delle lance. Se non sei preparato, rischi”.
Ti ricordi qualche gaffe particolare?
“Per fortuna no, anche se all’esordio dissi quarta quarriera mi pare. Il pericolo sono le situazioni impreviste, come quando il cavallo di Vannozzi entrò sulla lizza prima del via libera del maestro di campo. Mi portarono il bigliettino con il verdetto della giuria e dovetti trovare una formula per annunciare il punteggio. Mica facile in un contesto del genere”.
I bigliettini sono leggibili dagli spettatori posizionati alle tue spalle oppure no?
“Altro che. Sono pergamene, il punteggio devo sempre coprirlo con un dito. Da lì dietro vedono tutto e, giustamente, provano a sbirciare”.
E le tue corde vocali come le alleni?
“Più che altro devo salvaguardarle, specie a ridosso della Giostra. Se becco una faringite, è un guaio”.
Pensa se avessi avuto una voce meno potente. Che araldo saresti stato?
“Non avrei fatto l’araldo e non me l’avrebbero chiesto. La mia fortuna è stata la continuità vocale con mio padre. L’incipit fu il telefono: chiamavano a casa mia, rispondevo io e mi scambiavano per lui. Successe anche a Brandini e Polci che all’epoca erano nella magistratura della Giostra e proprio per quello mi proposero di provare. Dal 1999 ho cominciato a cimentarmi con il ruolo”.
Se un bambino aspirasse a diventare araldo della Giostra, oggi cosa deve fare? Non sarebbe utile ci fosse una sorta di scuola a questo scopo?
“Per quello che è stato il mio percorso, dico che l’unica scuola è la piazza, la lizza. Fare esperienza aiuta più di tutto il resto. Io non sono un professionista della recitazione, però conosco il Saracino perché l’ho vissuto e seguito fin da piccolo. Magari c’è qualcuno che la disfida saprebbe leggerla meglio di me, ma se non ha mai visto il buratto che gira, si troverebbe in difficoltà. Poi in questi anni qualche dritta ad attori e cantanti l’ho chiesta, specie riguardo la respirazione e l’intonazione. Ma è un altro discorso”.
Comunque la consiglieresti un’esperienza del genere?
“Certo che sì. L’araldo non è solo quello che legge il bando o la disfida. E’ un punto di riferimento che deve sfilare, leggere e assecondare il palinsesto. Un po’ d’ansia viene ma è bellissimo”.
Vorrei chiudere con una domanda banale ma che funziona sempre. Aneddoti particolari ne hai?
“Uno è legato a Ettore Tattanelli, il popolarissimo Bubi che è mancato a dicembre dell’anno scorso. Mi ha seguito passo passo nei miei primi approcci con il Saracino. Lui era il regista della Giostra e un giorno mi disse: “prima di morire, ti voglio vedere vestito da araldo”. Quando è successo, nonostante avesse un po’ d’acciacchi, è venuto a salutarmi durante la sfilata. Venerdì sera la prova generale è dedicata a lui e per me sarà un tuffo al cuore”.
Bello questo ricordo.
“Di aneddoti più leggeri ce ne sono altri. In una prova generale si ruppe il mazzafrusto, cosa che a mio padre non era mai successa in quarant’anni. Ma quello che mi fa sorridere è la scaramanzia. Ci sono miei amici che la settimana prima della Giostra non mi salutano perché dicono che porta bene. Una volta a Borgunto, durante la sfilata, uno venne a darmi una pacca sulla spalla. Mi disse che l’aveva fatto l’anno prima e il suo quartiere aveva vinto la lancia d’oro, quindi doveva ripetere lo stesso gesto”.
Ognuno ha i suoi riti.
“Sì. E tornando a quello che dicevamo all’inizio, è un rito anche la vestizione. Noi figuranti siamo una grande famiglia, ci vogliamo bene. Ricordo con emozione Antonio Bonacci: era nella magistratura e teneva sempre una bottiglietta d’acqua a portata di mano per passarmela in caso di bisogno. Con Dario Bonini, l’ex maestro di campo, ci siamo cambiati per anni fianco a fianco. Mi mancano molto entrambi. L’affetto poi lo vedi da tante piccole cose: una volta la Giostra si era prolungata agli spareggi, faceva caldo, ero teso. Gianni Cantaloni, capitano di Porta del Foro, si staccò dai suoi e mi portò una caramella alla menta. Il Saracino è anche questo e io non vedo l’ora che arrivi domenica”.