Durazzo, Durrës o Durrësi in albanese, con le sue vestigia romane è lì a ricordarci un passato che non tornerà. Radici profonde, di storia e di cultura, che hanno lasciato segni indelebili. Con le spalle alla Macedonia del Nord e lo sguardo rivolto verso Bari, la Puglia, l’Italia. È qui che Genc Kapxhiu (che si pronuncia Kapzio in italiano e Kapgiù in albanese) è nato il 14 marzo del 1973: italiano di origini albanesi e laureato in medicina, lavora da anni al dipartimento di Emergenza urgenza del San Donato di Arezzo ed è diventato medico sociale dell’Arezzo ACF, la squadra femminile amaranto. La sua è una di quelle storie aretine che vale la pena di raccontare. In città lo conoscono in molti, perché lui la vive completamente e per la quale si batte quotidianamente su più fronti: dal lavoro al pronto soccorso al proselitismo antidroga nelle scuole, dal Lions alla continua attenzione per i più fragili; con un orgoglio così forte che rimette in discussione quello di chi per Arezzo s’impegna solamente a parole.
«Ho deciso di fare il medico guardando mio zio. Quando ero un ragazzino lo seguivo sempre nel suo giro di visite e lo osservavo con grande attenzione, poi ho scelto l’Emergenza urgenza perché è adrenalina pura, non ci si annoia mai, ogni giorno è una storia diversa ed è impossibile andare in burnout». In Italia è arrivato nel 1998, un anno dopo la laurea in Medicina conseguita all’università di Tirana (14 agosto del 1997): «Dura sei anni come qui, però c’è più pratica e meno teoria. Prima di partire lavoravo al dipartimento di Emergenza urgenza di Durazzo, però il sistema sanitario albanese, dopo la fine del regime, è diviso in pubblico e privato: il primo è inefficiente, il secondo corrotto e, non essendoci un sistema di assicurazioni, se non paghi non vieni curato. Fare il medico, per me, è una missione quindi ho deciso di andare all’estero». L’Eldorado Italia per Genc si chiamava Montepulciano, lì dove viveva la sorella. Un nuovo Paese e un nuovo inizio: «Ho cominciato lavorando nei campi, poi in un’azienda di prefabbricati finché uscì un decreto legge per il quale anche gli stranieri potevano partecipare a corsi per diventare operatore sociosanitario. Dopo questo sono entrato alla CAM di Cortona, una residenza per disabili mentali. Ero tornato a lavorare nella sanità, così mi sono riscritto a Medicina, a Siena, riprendendo dal terzo anno e nel 2006 mi sono laureato, in Italia. Ricordo le prime guardie mediche e poco dopo il corso per l’Emergenza urgenza ad Arezzo, un corso abilitante di due anni che oggi è diventato di cinque. Infine ho fatto il concorso e sono entrato e lavorare al San Donato».
Genc è molto chiaro sul perché ha scelto l’Italia e non un altro Paese: «Vista dall’Albania per noi era l’America: benessere, civiltà, cultura, valori. Poi tutto questo è andato peggiorando e oggi l’Italia naviga in acque torbide, abbiamo perso i punti cardine cui aggrapparsi per fare crescere i nostri figli, nel mio caso figlie (tre, ndr). Ricordo ancora i primi tempi, quando lavoravo dal lunedì al venerdì, poi il sabato e la domenica li passavo in un ristorante e riuscivo a portare a casa due milioni netti di vecchie lire; in proporzione guadagnavo più allora che oggi», perché se c’è una cosa che a Genc non è mai mancata è la determinazione e anche la voglia di fare, due qualità che lo rendono ‘botolo ringhioso’ DOCG. Perché lui è aretino e italiano a tutti gli effetti avendo richiesto e ottenuto la cittadinanza dopo dieci anni di residenza nel nostro Paese. Farebbe differenza? Sarebbe diverso il Genc Kapxhiu che conoscete? Crediamo proprio di no, ma per chi ama l’Italia, per chi l’ha desiderata e voluta, per chi l’ha sognata e realizzata, realizzando sé stesso, la cittadinanza è un traguardo e oggi un argomento tutt’altro che banale: «Per ottenerla ci ho impiegato sei mesi ma so che altri hanno dovuto aspettare due anni. C’è una burocrazia imbarazzante, fogli sopra fogli, non è una pratica semplice. Poi c’è un altro aspetto, ho visto dare la cittadinanza a stranieri che non conoscono l’italiano, io credo che chi richiede la cittadinanza debba avere rispetto per la cultura e le leggi del Paese che ha scelto. La cittadinanza non deve essere solo un passaporto ma qualcosa di più intimo e profondo». Concetti tutt’altro che banali, in un periodo in cui si discute molto di ius soli, ius soli sportivo, di merito e quant’altro: «Io credo che uno la cittadinanza se la debba meritare con il comportamento, qualunque sia il lavoro che fa: medico, avvocato, atleta. Oggi, quando vado al Nord mi chiedono se sono toscano, perché ho imparato qui la lingua, se parlo con altri albanesi uso la mia lingua madre, ma se ci sono italiani con noi, per rispetto, uso l’italiano, ma alla fine quello che conta veramente è che io faccia il professionista, che quando una persona si reca al pronto soccorso del San Donato trovi un Genc Kapxhiu preparato e pronto ad aiutarlo, ecco cosa conta, questa è per me l’essenza della cittadinanza, di essere cittadino italiano, più di tutto il resto». Un atteggiamento che ti può aiutare ma non sempre ti difende dal razzismo, più o meno velato che questo Paese cerca continuamente di nascondere e dissimulare: «Forse sono stato fortunato ma non ho episodi da raccontare. Per strada chi mi riconosce mi saluta, quando si poteva mi abbracciava, senza problemi. Certo, con l’esodo del 1991 in Italia sono arrivati tanti albanesi e c’è stato un periodo in cui una parte di questi si è comportata male, oggi per fortuna le cose sono cambiate e tra italiani e albanesi l’integrazione è massima. Certo gli stupidi ci sono sempre, ma nessuno ha mai avuto il coraggio di dirmi in faccia qualcosa di offensivo rispetto alle mie origini».
Genc Kapxhiu è soprattutto un medico, lavoro che interpreta come una missione, senza aspettarsi niente in cambio, nemmeno dal punto di vista economico. Poi è arrivato il Covid-19: «È stato una scuola per tutti. Il pronto soccorso è passato da circa duecento accessi al giorno a soli trenta, quaranta, cioè quelli veramente necessari, dimostrando che l’ottanta per cento viene da noi senza averne veramente bisogno. Un problema che nasce fuori, perché se le persone, telefonando, non trovano nessuno che risponde, che le tranquillizza, che risolve il problema, allora vengono in ospedale perché sanno che avranno una risposta, perché noi non possiamo, e ci mancherebbe ancora, rifiutaci di visitarle. Però, e credo che sia chiaro a tutti, l’accesso continuo e non motivato al pronto soccorso rischia di collassare l’intero sistema sanitario, senza contare i turni cui siamo sottoposti, così accade che chi può se ne va a fare carriera a Siena piuttosto che a Firenze, dove ci sono le università, piuttosto che continuare a lavorare senza nemmeno il premio produzione. Personalmente non mi occupo di politica sanitaria ma spero che in futuro il pronto soccorso possa contare su risorse migliori e migliori condizioni di lavoro, anche perché nel nostro mestiere l’errore alla fine ricade sempre sul paziente, cosa che non tutti riescono a capire».
Genc vive in centro e non cambierebbe Arezzo con nessun’altra città: «Se avesse anche il mare sarebbe la più bella d’Italia». Perché qui non ha trovato solamente un posto in cui lavorare e vivere, concetto da mandare a memoria per quei tanti che dicono che lavorano per vivere e non vivono per lavorare, bello in teoria, forse quando non si sono mai avuti problemi a trovare un lavoro. Qui ha trovato una comunità che l’ha accolto e nella quale ha intercettato gli strumenti giusti per rendersi utile, fuori dal pronto soccorso, ma pensando sempre alla salute, quella dei giovani in particolare: «Una delle cose più belle di Arezzo per me è il Lions e il Progetto Martina, con il quale abbiamo portato l’educazione sanitaria nelle scuole superiori, insieme con un altro costruito da me sulla lotta alla droga in collaborazione con i quartieri della Giostra. Si trascura troppo spesso la fragilità dei nostri figli e nostre figlie di fronte alle difficoltà della vita e alle insidie che possono incontrare, la droga è quella più feroce e può iniziare nei modi più innocenti e banali». L’amore, quello vero, però non vede solo i pregi ma anche i difetti di una realtà che nei decenni è cambiata anche sotto i nostri occhi, tra chi ha voluto e chi non ha voluto vedere: «Arezzo non è solo la Giostra del Saracino ma è molto di più, c’è una cultura radicata che non tutti gli aretini conoscono bene, valori profondi che ne hanno permeato la storia. Però c’è anche il resto, c’è il degrado, c’è la droga, ci sono i nuovi poveri e allora io mi chiedo cosa manca, cosa possiamo fare, perché una città civile non può voltare le spalle a questi problemi. Ci vorrebbe, per esempio, un centro notturno vicino alla stazione e una lotta alla droga più convinta, da parte di tutti».
Nel cuore e nella testa di Genc Kapxhiu c’è anche il calcio, in realtà c’è da sempre. Tifoso milanista, perché i colori sono gli stessi della bandiera albanese, giocava nella squadra della scuola fino al 1991 quando è crollato il regime e rimpiange quel sistema sportivo simile agli Stati Uniti: «Grazie al dipartimento di Emergenza urgenza ho iniziato a frequentare lo stadio di Arezzo e a seguire gli Amaranto, li ho visti in serie B davanti a migliaia di persone, era meraviglioso. Poi il presidente Ferretti mi chiese se volevo fare parte dello staff sanitario e io accettai ben volentieri, ma quando è cambiata la dirigenza non mi hanno più chiamato, non so perché. Per fortuna, però, non è finita lì. Qualche tempo dopo, infatti, Massimo Anselmi mi ha chiesto di diventare il responsabile sanitario della squadra femminile, l’ACF Arezzo, e ho accettato molto volentieri. Ho trovato, infatti, un ambiente di lavoro sano, dove ognuno ha il suo ruolo e rispetta quello degli altri senza inutili ingerenze, ed è anche emotivamente appagante. Le ragazze sono straordinarie, c’è tanto affetto e la gioia di portare avanti un progetto innovativo, senza offese, parolacce o bestemmie. Nel frattempo è tornata a cercarmi la società maschile, ma ho preferito restare dove sono».
La famiglia oggi vive tutta in Toscana, tra genitori, sette figli, Genc è uno di questi, e ventuno nipoti che si ritrovano quando possono, vicini ma anche lontani per mantenere i rapporti familiari sani. Più vicino ai cinquanta che hai quaranta nel bilancio di una vita c’è sempre spazio per guardare al futuro: «Non cambierò mai lavoro, è la mia vita, è quello che amo e che so fare meglio. Però vorrei continuare a lavorare con i giovani, vorrei tornare a parlare nelle scuole e a portare avanti i progetti che la pandemia ha interrotto. Non abdicherò mai al degrado e alla droga, non voglio, non possiamo».
Alle spalle c’è l’Albania, un’Albania che noi italiani pensiamo di conoscere, anche storicamente, ma non è così: «Capisco che sia difficile comprenderlo ma quel sistema comunista era un sistema meritocratico. Non c’era povertà, c’era lavoro per tutti e i diritti alla salute, alla casa, al lavoro e allo studio erano garantiti. Ricordo che io ero il più bravo della classe e dietro di me c’era il figlio del sindaco, ma nessuno ha mai pensato di prevaricarmi solo perché suo padre ricopriva un ruolo importante nella società. Non c’era violenza e si stava tutti mediamente bene. Io l’ho vissuto così e se penso all’Albania di oggi, alla corruzione, alla devastazione edilizia della riviera, alla mancanza di rispetto per l’ambiente e a tutto ciò che manca non c’è proprio confronto. Come ho detto, sono venuto via perché in quel nuovo sistema non avrei potuto fare quello che ho fatto in Italia».
L’Albania, Durazzo, lì ci sono le radici di Genc Kapxhiu, radici che, giustamente, non si possono spezzare: «Quando è scoppiata la pandemia grazie al Lions Mecenate siamo riusciti a mandare 4.000 mascherine ai colleghi albanesi, che poi si sono recati a Bergamo per darci una mano. L’Albania resta il Paese delle mie origini ma fatico a riconoscerlo, perché adesso la differenza tra ricchi e poveri è diventata più netta, le persone faticano e la corruzione dilaga. Basti pensare che per avere un certificato che ti spetta devi pagare, altrimenti aspetti, qualche volta anche invano. Stesso discorso per la giustizia». Poi c’è la libertà, il grande valore dell’uomo: «Un dono che pochi sanno usare. Perché essere liberi non significa fare quello che ci pare, né in Italia né in Albania, essere liberi significa rispettare la libertà del prossimo e non invaderla inopportunamente. E devo dire che mi stupiscono i no-vax italiani. In un Paese come questo, con la sua cultura, la sua tradizione democratica, la bellissima carta costituzionale, che se fosse applicata come si deve farebbe dell’Italia il posto migliore al mondo in cui vivere, non mi aspettavo persone contrarie al vaccino, tanto meno sanitari. Perché, ripeto, fermo restando la libertà di ognuno questa non può influire in maniera negativa sugli altri. L’obbligo vaccinale? Sì, per me sarebbe opportuno, soprattutto per chi si occupa di sanità».
Genc è un concentrato di idee, quelle di una persona che non gira la testa dall’altra parte, che vive pienamente Arezzo, la sua città più di qualsiasi altra, che l’ama e desidererebbe vederla migliore di com’è adesso, ma allora c’è un futuro in politica? «Difficile fare politica in un partito dove c’è gente che non molla la poltrona, che è lì da trent’anni e che pensa solamente alla carriera. A me piace andare a testa alta sempre. Mica te lo prescrive il dottore di fare politica, giusto?!». E non poteva mancare un richiamo a chi potrebbe fare e non fa: «Ci sono persone che hanno fatto la storia economica di questa città e che si sono arricchite ma non fanno niente per migliorarne le condizioni, né finanziamenti né impegno. C’è una città che sta cadendo a pezzi e non parlo solo dell’aspetto culturale, ma anche sociale e valoriale, ma pare che interessi a pochi aretini, quelli che si battono quotidianamente, gli altri stanno rintanati nel proprio uscio e io non posso vedere. Sto crescendo qui le mie figlie, così come tante altre persone e non posso pensare che ad Arezzo ci possa essere il degrado che si vede a Milano e a Roma. Dobbiamo lottare per una città migliore, dobbiamo impedire che la droga dilaghi tra i giovani, ma vedo con dispiacere che questa battaglia interessa pochi, tantomeno le istituzioni cittadine».
Non c’è che dire Genc Kapxhiu è uno di noi, un aretino con i fiocchi, di quelli che non le mandano a dire e che si prendono tutte le responsabilità sulla propria schiena. Un’amante di Arezzo e della sua anima più profonda, un lavoratore che non è nato qui, ma che ci ha scelto per costruire la vita che ha sempre sognato, trovando spazio e spazi per esprimersi, non solo come medico del dipartimento di Emergenza urgenza del San Donato di Arezzo. Sui social, come nella vita reale, è apprezzato e stimato da tante persone, tra queste chi lo ha preso come punto di riferimento di un certo modo di fare il medico e di sentirsi aretino. Meritava di essere raccontato? Non avevamo dubbi. Ma, e lo scriviamo oggi, uno come Genc meriterà di essere ricordato, anche se la memoria non è una delle nostre qualità migliori.