Il sesto centro consecutivo, l’undicesimo trionfo con Porta Santo Spirito, l’eleganza senza eccessi nelle vittorie e nelle sconfitte, il fair play con gli avversari, il rapporto fraterno con Elia Cicerchia, la gratitudine per Luca Veneri, la simbiosi con Napoleone e Doc, due cavalli che lo hanno fatto diventare il re della piazza. Intervista a un cavaliere che è anche un grande giostratore
Gianmaria Scortecci sta scrivendo la storia del Saracino. Undici trionfi in piazza con Porta Santo Spirito, il quartiere trascinato in testa all’albo d’oro con trentotto successi (insieme a Porta Crucifera), la lancia appoggiata per sei volte consecutive sul V, un record che difficilmente potrà essere battuto. Grandi numeri che parlano da soli. Cavaliere di nome e di fatto, unisce il valore tecnico a una larghezza di sentimenti che è parte integrante del suo bagaglio giostresco. Fu lui il primo a consolare l’amico rivale Vedovini che l’anno passato, al tiro d’addio, perse la lancia contro il buratto. Ed è stato lui, lo scorso 18 giugno, a stringere in un abbraccio consolatorio il debuttante Montini, tradito dall’emozione e uscito dalla lizza con punti 0. Mai una parola sopra le righe, mai un eccesso, né da vincitore né da sconfitto. Scortecci è il ritratto dell’eleganza quando è sopra al cavallo e quando sta davanti a un microfono, nella bolgia dei quartieristi in festa e nel clima raccolto del te deum. Oggi, a 36 anni, viene considerato il re della piazza. Ma il titolo se l’è conquistato con fatica, inseguendo un V che all’inizio non arrivava mai, meditando di mandare tutto al diavolo dopo essersi fatto disarmare dal buratto nella notturna del 2015, vivendo all’ombra di Cicerchia che, prima di lui, si era preso onore e gloria. Poi è cambiato tutto, grazie anche a due cavalli come Napoleone e Doc che lo hanno arricchito, completato e reso un vincente, oltre che una sorta di professore di Saracino.
Doc e Napoleone in cosa si somigliano e in cosa sono diversi?
Sono entrambi due veri cavalli da Giostra, generosi, sfrontati in piazza. Con entrambi sono riuscito a instaurare un rapporto di grande fiducia per cui, anche nei momenti più caldi, si sono affidati completamente a me. Da un punto di vista meccanico sono diversi. Napoleone è più leggero, mi dava proprio l’idea di galoppare su una nuvola e il tiro per me era molto istintivo. Doc invece è potente, ci ho messo un po’ ad adattarmi ma adesso l’affinità è massima. Devo dire che mi dà grande soddisfazione vedere come evolve nel lavoro: quattro anni fa era un altro cavallo. Caratterialmente Napoleone è molto docile, sereno, affettuoso. Doc invece è dominante, un capo branco che a volte può essere anche aggressivo se non lo si conosce. Lui la piazza la morde.
C’è stato un momento preciso in cui hai capito che avevi fatto il salto di qualità come giostratore?
Sicuramente dopo la prima Giostra con Napoleone. Il fatto di aver colpito il mio primo cinque e di averlo ripetuto subito allo spareggio mi dette la consapevolezza che non si trattava di una casualità. Fino a quel momento il mio dispiacere era non ripetere in Giostra ciò che facevo a casa e in parte alle prove.
L’abbraccio con Montini ha fatto bene più a te o a lui?
Non saprei, a me è venuto spontaneo. Per noi la Giostra è una parte importante delle nostre vite. So quale tensione si viva, per di più all’esordio, e so quanta delusione possa esserci quando tutto va storto. Ero accanto a Pineschi, il nostro giostratore amico di Montini, siamo rimasti colpiti dal momento e ci siamo domandati se non era il caso di andare a dargli una pacca nella spalla, a fargli capire che ci sarebbero state altre occasioni per riprendersi. A entrambi è venuto naturale. Non credo di aver sollevato chissà quanto il suo morale, ma era un gesto di vicinanza, di empatia. Poi è diventato anche mediatico, ma non era nostra intenzione, non avremmo mai pensato che una telecamera avrebbe potuto inquadrarci in quella posizione, sotto la tribuna A. Doveva essere una cosa privata, non volevamo certo il clamore.
A inizio carriera, quando il V non veniva e dopo la lancia persa, ti è mancato uno Scortecci che ti rincuorasse? O ne avevi uno vicino?
Per fortuna ho avuto i miei amici e i miei cugini quartieristi che mi hanno sempre sostenuto nei momenti critici. Una volta addirittura Fabio Cittadini, il mio mentore all’interno del quartiere, mi prese per il bavero della camicia. Mancavano un paio di mesi alla Giostra della mia svolta, avevo perso la lancia a giugno e tra delusioni e un po’ di polemiche interne, stavo pensando di mollare tutto. Tra il gruppo di giostratori dell’epoca, invece, Stefano Cherici è sempre stato molto carino con me. Se qualcosa andava male a noi, ovviamente vincevano loro di Sant’Andrea. E quando lo sentivo per congratularmi, mi mandava sempre un messaggio o una frase di sostegno. Lo ricordo con grande piacere.
Su cosa si reggono gli equilibri di coppia con Cicerchia?
Su una grande amicizia, quasi una fratellanza. Ci siamo trovati per caso e abbiamo subito cercato di sostenerci l’un l’altro, nella tensione degli esordi, nel giubilo delle vittorie e anche nei momenti complicati. Nei primi anni non era scontato, perché non avevamo alcun rapporto pregresso, ci siamo semplicemente fidati e affidati l’uno all’altro, forse per spirito di squadra o forse per una naturale ricerca di sostegno umano. Una cosa di cui sono molto orgoglioso è che nei primi tempi, quando lui faceva punteggi inimmaginabili, non sono stato geloso nemmeno per un secondo e non ho mai sentito alcun tipo di rivalità. Gioivo dei suoi successi personali e cercavo di lavorare sodo per arrivare a quel livello. Penso sia stata una cosa importante che ci ha permesso di diventare una grande coppia. Ora siamo due fratelli, la Giostra è una parte del nostro rapporto più ampio. Quell’affidamento reciproco lo abbiamo portato sul piano privato ed è una cosa speciale. Averlo vicino mi ha aiutato molto anche nei momenti di difficoltà al di fuori delle scuderie.
Hai avuto un idolo giostresco da bambino?
Luca Veneri senza ombra di dubbio. Nei primi anni ’90 lui e suo fratello Gabriele erano giovani esordienti, guardavo Luca con grande ammirazione. Faceva le prove con un caschetto bianco, io all’epoca iniziavo a montare i primi pony e me ne feci comprare uno uguale. Tutto orgoglioso mentre lo indossavo, chiedevo sempre ai miei: “Sembro Luca Veneri?”. Ma quello che ricordo con più piacere è successo dopo. Ho preso la lancia in mano per la prima volta grazie a lui, che mi propose al nostro capitano Barberini. Da lui ho avuto il primo vero cavallo da Giostra con cui ho esordito, Machine Gun. Poi, nel mio momento più complicato, fu lui a prospettarmi la possibilità di prendere Napoleone. Parlò con Giovanni Bracciali e poi mi chiamò: “Giamma, chiama Giovanni, devi prendere quel cavallino, lui te lo dà volentieri”. Come potrei non essergli eternamente riconoscente? Luca era fuori dal gruppo del quartiere, sono stati tutti gesti privi di interesse che apprezzo enormemente.
Ce l’hai un aneddoto divertente che hai vissuto in questi anni di Saracino?
Ne racconto uno dell’ultima Giostra. Stava per tirare Elia. Parlavamo con il capitano e il gruppo tecnico e io gli dico: “tira nel rigo!”. Lui sbotta: “No eh, non iniziate a dirmi così. Nel rigo io non ci tiro, fatemi mirare a qualcosa”. A ripensarci sono stato stupido io: come fai a chiedere a un cecchino di mirare un po’ a caso?