Scrivi rider e pensi alla pizza o al sushi che ti arrivano all’ora di cena, ordinati nel tuo ristorante preferito. Una categoria professionale che nell’ultimo anno ad Arezzo è cresciuta in maniera esponenziale, ma ancora poco conosciuta e anche poco rispettata. Li puoi trovare in piazza Guido Monaco verso le 19, aspettando gli ordini dei vari ristoranti attraverso l’App di riferimento, a seconda della piattaforma sulla quale si sono registrati e per la quale lavorano. Noi ne abbiamo incontrati due, Caterina e George, della provincia di Arezzo lei, originario della Romania lui. I nomi sono di fantasia perché non è facile raccontarsi e raccontare cos’è un rider, cosa fa e a quali difficoltà va incontro, che non sono solamente quelle economiche, anche se adesso c’è un contratto di collaborazione (sul quale sta scritto: «Il Rider è un fornitore autonomo»), ma pure relazionali: con i ristoranti, con i clienti e con le forze dell’ordine. Un esempio? I varchi della ZTL, per i quali ogni rider dovrebbe pagare 500 euro l’anno, visto che non è un dipendente e che, quindi, nessuno paga e pagherebbe quella cifra per lui.
George ha vent’anni, è originario di Bacau, vicino al confine con la Moldavia, e da undici vive ad Arezzo. Ha fatto la scuola professionale, manutentore meccanico, ma due mesi in officina gli sono bastati per capire che quello non era un lavoro per lui: «In generale, non mi piace stare sottoposto, però dipende sempre dal tipo di lavoro e dal tipo di contratto. Oggi come oggi prenderei al volo un lavoro in fabbrica a tempo indeterminato, anche per 800 euro il mese, ma con tutte le garanzie. Purtroppo ho il passaporto scaduto, altrimenti avrei accettato l’offerta di Amazon in Inghilterra per lavorare in un magazzino a 17 sterline l’ora, per sei ore il giorno. In questi anni ho fatto molti lavori al nero, l’estate scorsa, per esempio, ho lavorato per una ditta di Montevarchi che fa traslochi, poi come manovale a chiamata. Il rider è un lavoro pericoloso, ma se hai voglia di fare puoi guadagnare bene», considerando che, come previsto dalla legge, se superi la soglia dei 5.000 euro l’anno devi prendere la partita IVA e rinunciare al contratto di collaborazione, che prevede la ritenuta d’acconto del 20%. Le battaglie degli ultimi mesi, infatti, hanno portato più garanzie. Un contratto, appunto, l’INAIL per gli infortuni sul lavoro e un’assicurazione per danni verso terzi, ma le garanzie hanno un costo e questo costo, a quanto pare, lo pagano i lavoratori più che le piattaforme di delivery. Una di queste, ultimamente, ha istituito un fondo per premiare chi fa più consegne. Prima del contratto i rider prendevano un minimo di 6 euro l’ora che alla fine del mese poteva aggirarsi sui 5-600 euro in più; adesso ogni ordine vale 3,46 euro, ma è stato inserito un bonus orario di 11: se fai più ordini ti vengono pagati solo questi, se invece fai solo tre, o meno, ordini in un ora scatta il bonus e il rider prende indistintamente 11 euro. Poi ci sarebbero le mance sulle quali la piattaforma preleva il 20%, ergo è meglio dargliele personalmente che con il pagamento elettronico. «Chi ha la partita IVA, inizialmente, non era contento delle nuove tariffe, ma se lavori tanto e fai 70-80 ordini il giorno, puoi arrivare a guadagnare anche 2.500 euro il mese. Alla fine guadagna chi lavora tante ore e prende molti ordini», ribadisce George. Il kit, borsa, giubbotto, ecc., è gratuito, se arriva con delle malefatte viene sostituito dalla piattaforma, ma se il rider lo rompe lo deve ricomprare.
Caterina di anni ne ha 22 e lavora da quando ne ha 16: «Ho frequentato la scuola agraria, ma non avevo le basi. Così mi sono iscritta all’alberghiero, ho perso due anni ma non tornerei indietro. Intanto sono al secondo anno del corso per sommelier. La verità è che a me piace misurarmi sempre fuori dalla mia zona di comfort, vorrei viaggiare e fare esperienze, non m’interessa il lavoro fisso, basta che ci sia. Ho fatto anche la cameriera, stagionale e a chiamata, è un bel lavoro al quale tornerei volentieri, soprattutto in una delle ultime esperienze, anche se quando porti il piatto rappresenti il ristorante e quindi hai più responsabilità. Facendo il rider, invece, porti il cibo di altri, consegni e te ne vai, insomma è meno stressante. Io non lavoro sempre come rider, faccio anche la babysitter», perché il rider può essere un primo, ma pure un secondo o terzo lavoro, soprattutto per i più giovani. Su una cosa, infatti, George e Caterina sono d’accordo: «Adesso siamo giovani, possiamo scegliere di fare tante cose, vediamo quello che accade e magari un giorno avremo un lavoro migliore, più sicuro. Una cosa è certa, non puoi fare il rider per sempre e, soprattutto, non dopo una certa età». George fa il rider da due anni circa, Caterina invece ha iniziato con il primo lockdown.
Chi volesse tentare l’avventura deve iscriversi al sito della relativa piattaforma e fare la domanda di lavoro, presentando una serie di documenti. Si viene valutati e, se è tutto a posto, accettati. Poi c’è l’App con cui ti colleghi, una volta online arrivano gli ordini e comincia la serata: «All’inizio – racconta George – ne accettavano uno su cento, adesso invece prendono quasi tutti perché il delivery è esploso con la pandemia di Covid-19, ma così facendo hanno abbassato la qualità del servizio, con merce non consegnata e lamentele sia da parte dei ristoranti che dei clienti». I rider non sono sicuri ma gira voce che l’algoritmo premi quelli che fanno più ordini, cioè se, per esempio, in un’ora uno ne ha fatti 4 e un altro 3 l’ordine successivo comparirà prima a chi ne ha fatti di più, classico esempio di economia liberista applicata al delivery; se poi il primo in ‘classifica’ lo rifiuta questo passa al secondo e così via. Ma ci sono anche ristoranti che impiegano troppo tempo nel confezionare l’ordine e per questo vengono ‘declassati’ dagli stessi rider: «Ad Arezzo siamo come una famiglia, ci conosciamo tutti. Abbiamo un gruppo WhatsApp con poco più di 40 membri, pakistani, rumeni, albanesi, italiani e una ragazza mediorientale. Ci aiutiamo, ci consigliamo e conosciamo bene sia i ristoranti che i clienti», afferma George. «I clienti non sempre sono gentili con noi – dice Caterina –. Spesso pretendono che nei condominii si arrivi al piano, quando non è assolutamente previsto, e non ci lasciano nemmeno la mancia. Generalmente sono gli stranieri a lasciarci le mance migliori rispetto ai miei connazionali». Eppure basterebbe poco.
Gli italiani sono il 25 per cento circa del totale e sono aumentati in questo ultimo anno di pandemia di Covid-19. C’è chi lavora in macchina, chi in motorino, chi in bicicletta: «Io ho fatto un incidente con la bicicletta – ricorda George –, ma è stata colpa mia, quindi nessun risarcimento: non sono sceso sulle strisce pedonali. Anche mio fratello ne ha avuto uno col motorino e anche in quel caso hanno detto che era colpa sua». Fare il rider è rischioso, anche in una città come Arezzo, che non ha il traffico di Roma o Milano; il tempo è un elemento fondamentale, sia nella consegna del cibo caldo che nell’evadere gli ordini, perché lì si gioca il guadagno di questi ragazzi e di queste ragazze. Un lavoro che qualche volta può durare anche undici ore il giorno, tra spostamenti, pranzi e cene, da consegnare. George e Caterina sperano che le cose cambino, non solo in senso economico, magari anche i rapporti con la polizia municipale e le forze dell’ordine, tra continue multe e richieste di controllare i contenuti dei borsoni, cosa eufemisticamente inusuale per le norme anti Covid-19 e per la sicurezza alimentare del cliente finale che, banalmente, siamo tutti noi che ordiniamo pranzi e cene da asporto. Una novità che sta diventando abitudine, una novità che si può realizzare grazie al lavoro degli altri, in questo caso grazie a quello di giovani rider, ragazze e ragazzi, che percorrono chilometri con poche garanzie e tanti rischi. Per la nostra pizza, il nostro sushi, i nostri hamburger. Gentilezza e mance, quindi, dovrebbero essere di default.