L’esempio di Koinè, che porta servizi anche laddove il pubblico non riesce ad arrivare, garantendo stipendi più alti della media ai propri dipendenti. Come? “Semplice, non siamo un appaltificio”, spiega Paolo Peruzzi, direttore generale di una cooperativa sociale che gestisce attività d’assistenza a minori, anziani e disabili
Mutamento radicale di un ordine. E’ questa la definizione di “rivoluzione”, termine abusato e banalizzato al punto da diventare – nel linguaggio pubblicitario – “rivoluzionario” uno snack che cambia farcitura. Ma un intento davvero rivoluzionario si scorge, ad esempio, nell’attività portata avanti da una cooperativa sociale di Arezzo. Che da quasi trent’anni, senza clamore, veleggia tra le tempeste delle crisi economiche. Controvento, peraltro. La Koinè esiste, resiste e addirittura prospera in un ecosistema apparentemente avverso come l’ultima generazione del liberismo occidentale – versione più tecnologica, competitiva, asettica, finanziaria, multinazionale, vorace – che dalla fine del ‘900 a oggi ha esteso la sua influenza sull’intero globo.
Ma come? “Fin dall’inizio – spiega Paolo Peruzzi, che di Koinè è direttore generale – abbiamo assunto come essenziali i temi del rispetto delle regole e dei diritti dei lavoratori. Non solo professandoli, ma facendo le cose di conseguenza”. Koinè è stata la prima impresa sociale in Italia a ottenere la certificazione SA8000, standard internazionale che assicura il rispetto dei diritti umani, quello dei diritti dei lavoratori, la tutela contro lo sfruttamento dei minori, le garanzie di sicurezza e salubrità sul posto di lavoro. Già nel 2000, Koinè finisce come esempio nel volume di sociologia curato da Pierpaolo Donati e Ivo Colozzi Generare il civile (edito da Il Mulino). E a distanza di poco più di un decennio dalla fondazione, ottiene il riconoscimento per il miglior bilancio sociale d’Italia dall’Airces, l’Associazione italiana revisori contabili dell’economia sociale. Una piccola rivoluzione nel mondo dell’impresa, fatta di molto pratico esempio e poche parole.
Quelle poche sono fissate nella carta dei principi ispiratori, stelle polari di ogni attività di Koinè: “Perseguire l’interesse generale della comunità alla promozione umana e all’integrazione sociale dei cittadini, attraverso la progettazione e la gestione di servizi sociali, assistenziali, scolastici di base, sanitari di base, socio educativi, educativi, socio – sanitari, di prevenzione del disagio giovanile e sociale, di promozione del benessere comunitario, di pre-formazione, orientamento, mediazione e servizi a supporto delle politiche attive del lavoro, formazione professionale, di attività di studio e ricerca sociale ed ogni altra attività rivolta a persone bisognose di intervento sociale, nel pieno rispetto delle norme di cui alla legislazione vigente. Un ulteriore scopo è quello di ottenere continuità di occupazione e le migliori condizioni economiche, sociali, professionali”. Ma per capire come, nello scacchiere economico dell’homo homini lupus, riesca a germogliare una realtà del genere, in grado di pagare – puntualmente – stipendi più alti della media nazionale, occorre partire dal principio.
“Nel 1991 – spiega Paolo Peruzzi – lo Stato italiano aveva istituito le cooperative sociali, con una legge che ne disciplinava il funzionamento. Per la prima volta era prevista la perimetrazione sociale: quest’ambito diventava esclusivo di un solo di tipo di cooperativa. Alle fine del 1993 viene fondata Koinè, come scissione del ramo di impresa sociale di una coop polisettoriale, che si chiamava Scasa. Personalmente, in precedenza, avevo fatto il sindacalista per undici anni con la Uil. Siccome a casa non c’ero mai, avendo moglie e tre figli, avevo deciso di cambiare: lasciando, pur se con dolore, il sindacato. Ho fatto anche il dirigente d’azienda, ma ho retto 23 giorni. Poi l’approdo a Scasa nell’89. Dal ’93 si cambia. Ad aprile ’94 la Koinè parte concretamente, ereditando 160 dipendenti part-time e 3,4 miliardi di lire (1,75 milioni di euro, poco più, nda) di fatturato. E fin dall’inizio abbiamo ritenuto centrali i temi del rispetto delle regole e dei diritti dei lavoratori. Abbiamo sempre cercato di agire in trasparenza, attraverso procedure chiare”.
Ma non si tratta di qualcosa calato dall’alto, formali obblighi a cui l’impresa si attiene scrupolosamente per potersi appuntare medaglie al petto. Sono decisioni figlie di convinzioni radicate, fatte dalle persone che formano la cooperativa. Lavoratrici e lavoratori che si sono scelti, volendo condividere un cammino. Per farlo hanno optato per la strada più limpida: quella del rispetto, della fiducia. Della cooperazione, appunto. “Sembra strano, visto da fuori, eh?”, dice Peruzzi sorridendo.
Koiné punta sui servizi di interesse pubblico: la cura degli anziani, dei bambini, dei disabili. Gestisce nidi d’infanzia, servizi per minori, case di riposo, strutture assistenziali per disabili, centri di servizio psichiatrico, alloggi protetti, centri diurni, vari servizi territoriali. Collabora con le istituzioni della provincia di Arezzo “nella logica che la sussidiarietà sia oggi uno dei motori dell’innovazione del welfare”. Adoperandosi per l’emancipazione di persone escluse o svantaggiate.
Nel contempo Koinè fa impresa: dando lavoro a 730 addetti, di cui 92% di presenza femminile. Koiné ha poi generato nuove realtà: è nato un sistema di imprese sociali – il sistema Koinè appunto – che comprende Betadue e Cinpa, sviluppa quasi 40 milioni di euro di fatturato e occupa oltre 1.300 persone.
“Nel 2019, soltanto come Koinè, abbiamo chiuso con 21,5 milioni di fatturato e 10 milioni di patrimonio netto”, aggiunge Peruzzi. Come? “Anzitutto non siamo un appaltificio, lavoriamo solo sul territorio in cui siamo radicati. Non andiamo a fare gare per la gestione dei servizi in Valle d’Aosta. Conosciamo il contesto in cui operiamo ed è un vantaggio. Oggi occupiamo vasta parte del nostro mercato di riferimento e va bene così. Non abbiamo figure commerciali che si interessano dei bandi in tutta Italia. Inoltre l’equilibrio si trova abbassando i costi dell’apparato: il rapporto tra ore indirette di lavoro (gestione) e quelle dirette retribuite (erogazione dei servizi) sta sotto il 3%, perché la direzione della cooperativa è militante. La dirigenza – in primis la presidente Grazia Faltoni – lavora, non fa rappresentanza. I costi indiretti si abbassano notevolmente e in parte ricadono sui lavoratori, altri restano in cooperativa e così facciamo investimenti, immobiliari per lo più, per avere nostre strutture a disposizione”.
C’è anche un altro paletto fondamentale nel fare impresa di Koinè: “Crediamo che il lavoro vada valorizzato e i diritti dei lavoratori vadano estesi, senza però incrementare i costi per l’utenza finale, altrimenti le comunità in cui portiamo i nostri servizi sarebbero svantaggiate. Soprattutto le più piccole. Un posto letto in Rsa vale 37mila euro l’anno, in media. A Pescaiola, nella nostra casa di riposo, avremmo potuto creare 80 posti letto, lo spazio c’era. Abbiamo preferito farne 48, allestendo però un luogo più vivibile per i nostri ospiti, con spazi più ampi e fruibili, con ulteriori servizi. Abbiamo rinunciato a oltre un milione l’anno”.
L’ottica è quella di incrementare il welfare, in aiuto al pubblico che non ci arriva – esempi sono i nidi in luoghi a scarsa natalità come Castelfranco o Cetona – ricercando il benessere comunitario, moltiplicando opportunità e mezzi a disposizione di chi non li ha, nell’ottica di affermare, per tutti, il valore della dignità umana. “Ci sono presupposti non negoziabili in Koinè e muovono da convinzioni profonde. Una delle esigenze è quella di ridurre le differenze di accesso alle opportunità. Anche nell’informazione. L’asimmetria informativa genera disparità. Abbeverandosi ai social, i grandi problemi diventano questioni che si riducono a slogan. Sintesi brutali che non possono contenere reali soluzioni. Sono riduttori di complessità, basti pensare al semplicistico dibattito sulla questione migranti. Che oltretutto scatena lotte feroci. Dobbiamo recuperare la capacità di leggere in maniera condivisa la complessità sociale, se vogliamo uscire dal pantano: occorre ricalcolare le rotte tutti insieme per procedere nel futuro”.
Forma e sostanza, predicare bene e razzolare altrettanto, per imprimere, dal basso, una spinta nuova. “Investiamo sul lavoro e sui lavoratori non per essere più buoni, ma perché ciò permette di essere generativi. Un lavoratore che trova condizioni buone per operare sarà un lavoratore migliore. E i nostri servizi vengono riconosciuti tra quelli più efficienti”.