«La vita somiglia molto al jazz… è meglio quando si improvvisa», soleva dire George Gershwin. Ripercorrendo quella, giovane, del jazzista aretino Federico Nuti potremmo dire che lui Gershwin l’ha preso alla lettera, laddove l’improvvisazione è capire quale direzione prendere, è studio continuo, è consapevolezza di sé e fame di musica e futuro.

Jazz

Federico ha nelle vene sangue toscano, nato a Fiesole il 13 dicembre 1992, ha vissuto tra Firenze, Arezzo, la sua città, e Siena. Il pianoforte a sette anni, il calcio, il liceo classico, poi Biotecnologie e Medicina, per scegliere infine la musica: «Prendevo qualche lezione di piano a Siena Jazz (l’Accademia Nazionale del Jazz, ndr) e mentre facevo Medicina mi sono innamorato dell’improvvisazione. Perché il jazz? Perché sembrava dare più libertà d’espressione e scelta rispetto ad alcuni dogmi della musica classica».

Ma non è stato sempre così. L’amore per il jazz gliel’ha trasmesso il padre, Leopoldo, ma prima c’è stato il classico periodo delle tastiere nei gruppi rock del liceo, poi l’università. Lasciare la facoltà di Medicina per dedicarsi esclusivamente alla musica è arrivato dopo, attraverso tutti questi passaggi: «Ho scoperto un interesse totalizzante e ho deciso ciò che volevo fare, così ho lasciato l’università e mi sono iscritto ai corsi triennali di Siena Jazz University».

Una scelta che ha catapultato Federico in un mondo nuovo, non per questo sconosciuto, perché quando piace una cosa, quando la passione è forte, c’è sempre quella sensazione di riconoscersi, di essersi sempre cercati e finalmente incontrati: «Medicina era un ambiente completamente diverso, non avevo la sicurezza che stessi facendo la cosa giusta, sentivo un interesse, ma dall’altro lato c’era una passione molto più forte che mi coinvolgeva. Che, poi, potesse diventare un lavoro me ne sono accorto solamente in corso d’opera. L’Accademia a Siena è stato un momento formativo molto importante, non solo per gli studi ma per le esperienze che sono riuscito a fare. La musica non è solo studio e perfezionamento ma soprattutto ascolto, espressività, capacità di coinvolgere, emozionare e misurarsi con il pubblico. Negli anni senesi ho avuto molte occasioni, ho suonato in sale da concerto, eventi in paesi e città sia in Italia che all’estero e questo, oltre lo studio, mi ha dato la possibilità di capire cosa poter fare dopo, che direzione dare alla mia musica. Ad esempio, in questo periodo ho avuto la possibilità di esibirmi in alcuni festival internazionali come quello di Amburgo davanti a piazze piene di persone, contesti molto diversi da quelli in cui mi ero trovato precedentemente. Tutto questo mi ha aiutato a capire come funziona la vita del musicista quando ero ancora uno studente». Mentre parla Federico sorride ricordando quel periodo, nemmeno troppo lontano, ma la pandemia ha dilatato anche la memoria. Sorride perché ricorda con piacere il cammino che ha intrapreso e che l’ha portato fino a qui. Sorride con la consapevolezza di chi si guarda indietro sapendo di avere fatto la scelta giusta.

Come in tutti i percorsi creativi e professionalizzanti non si smette mai di imparare e di migliorare e così, appena finita l’Accademia, Federico ha fatto vari test di ammissione in Europa e negli Stati Uniti, patria del jazz, entrando al New England Conservatory of Music, una scuola pazzesca che ha dato il là a musicisti straordinari: «È qualcosa di difficilmente paragonabile ai conservatori in Italia per quanto riguarda struttura e organizzazione della didattica. Per non parlare dei costi, perché senza due borse di studio non ce l’avrei fatta, ma ne è valsa assolutamente la pena. Al NEC hai a che fare con artisti di fama mondiale, hai modo di lavorare su te stesso e organizzare il tuo percorso scegliendo quali corsi seguire al di là di due, tre, materie obbligatorie. Io ero iscritto al dipartimento di Jazz, ma ho frequentato molti corsi appartenenti a quello di Contemporary improvisation, affrontando linguaggi musicali di qualsiasi genere. Insomma, là c’è un modo di pensare la didattica musicale molto aperto».

Siena e Boston, due realtà lontanissime, non solo dal punto di vista musicale, che dentro Federico hanno lasciato tracce ben precise: «Siena mi ha dato un approccio creativo alla musica. Il jazz è nato in un altro Paese, in un’altra epoca, e quello che secondo me vale la pena fare oggi in Italia è rielaborarlo, creando un linguaggio che sia al passo con i tempi e non semplice copia di ciò che è stato. Boston, d’altro canto mi ha formato, sia come persona sia come musicista. I grandi artisti con i quali ho studiato mi hanno trasmesso gli strumenti per entrare ancora più in profondità nella musica e nei suoi linguaggi, per appropriarmene, prendere quello che mi piace e trasformarlo».

InFormal setting

Lo step successivo sarebbe stato quello di rimanere negli Stati Uniti dopo il diploma, girando il Paese con il jazz, ma il Covid-19 ha rimescolato le carte e Federico ha dovuto improvvisare ancora una volta: «Non avrei vissuto comunque negli Stati Uniti; certo Boston è una città fantastica, ma la vita sociale è molto difficile, povera e stressante. C’è molto individualismo tra le persone, molto spesso finisci per sentirti solamente come un altro impegno per loro, è difficile creare una comunità, fare amicizia nel senso più profondo del termine. La differenza che più ho sentito tra Siena e Boston è ed è stata proprio questa: il tipo di rapporto che riesci a instaurare con gli altri. Ecco, questa è una di quelle cose che secondo me arriva in profondità dentro la musica, perché creare qualcosa insieme molto spesso richiede tempo, calma e pazienza per ascoltarsi, capire, rielaborare quello che hai fatto; l’aspetto umano è senza dubbio un valore aggiunto che porti nelle note che suoni», e in fondo l’improvvisazione è una delle attività più umane che esista.

Federico è un perfezionista, difficile trovare un ragazzo simile, e la pandemia è stata un colpo inizialmente duro da assorbire, ma una volta tornato a casa ha scozzato le proprie carte e si è rimesso in gioco: «Appena rientrato ho avuto l’opportunità di iniziare a insegnare pianoforte proprio a Siena Jazz, inizialmente ai corsi pre-accademici e poco dopo anche al triennio universitario come docente di piano complementare. Ho sempre visto musicisti e persone che ammiro avvicinarsi alla docenza con soddisfazione e sapevo che ci sarei passato anch’io, in un modo o nell’altro. Di sicuro stare dentro Siena Jazz offre un terreno di scambio e di incontri interessanti con molti dei migliori musicisti italiani». Per il Federico insegnante ciò che conta è aiutare le sue studentesse e i suoi studenti a comprendere la strada che hanno scelto di intraprendere: «Mi ci rivedo. Rivedo alcuni errori, l’impazienza e allora cerco di evitargli gli stessi malintesi, cerco di render loro il più possibile chiaro il percorso e l’obiettivo, che non è studiare e dare l’esame. La musica è un’altra cosa, l’obiettivo è di più ampio respiro. Quando sono arrivato da Medicina studiavo per ricordare dei concetti, al pianoforte, invece, studiavo per interiorizzare la musica e potermi esprimere, connettermi con gli altri; è un altro mondo».

Parlare con Federico ci porta ad affrontare anche il fatto che il jazz sia stato per tanto tempo e sia ancora in parte considerato solo una musica per certi locali e adatta a un certo tipo di ascolto, un luogo comune? «Direi di sì, anche perché oggi il jazz ha tante e tali sfaccettature che è difficile rinchiuderlo in un solo ambito e dare delle definizioni. È sempre stata una musica in evoluzione, ma oggi più che mai sotto la parola “jazz” si raggruppano generi, stili e influenze diversi, provenienti da ogni parte del mondo. Certo possono esserci ensemble interamente acustici di pochi elementi, in un certo senso più cameristici, che necessitano di una certa intimità tra ascoltatore e musicista, ma se penso a gruppi come quello elettrico di Miles Davis negli anni ’70 siamo in una dimensione completamente diversa. In Italia purtroppo si scontano ancora dei pregiudizi culturali riguardo al jazz, che a volte fatica a vedersi riconosciuto uno status paragonabile a quello della musica classica. È un peccato perché in Italia c’è, attualmente, un ambiente molto prolifico, con un’offerta musicale ampia e variegata che potrebbe essere valorizzata maggiormente. Inoltre questa sorta di pregiudizio elitario non ha alcun senso perché per suonare jazz e improvvisare è necessario un certo livello di conoscenza, consapevolezza e creatività. Improvvisazione non significa approssimazione. Improvvisare significa essere presenti nel momento della performance, dialogare con gli altri e con sé stessi tramite quello che ti viene dato in quell’istante, rilasciando e rielaborando ciò che hai assorbito in precedenza, i vari elementi dei linguaggi musicali che tu hai interiorizzato nei tuoi ascolti e poi scelto di approfondire. L’improvvisazione non nasce dal nulla e necessita di una tecnica raffinata, intesa come conoscenza dei materiali musicali e delle potenzialità dello strumento».

Jazz

Ma la vera notizia è che da qualche giorno è uscito il suo primo lavoro discografico dal titolo InFormal setting, un percorso lungo e affrontato con tenacia: «Il progetto era nato a Siena con un gruppo di giovani musicisti, insieme avevamo suonato in Sala Vanni, a Firenze, e poi a UnTubo, sempre a Siena. La mia permanenza negli Stati Uniti mi ha permesso di consolidare idee e materiali per la mia musica, sapendo che avrei ripreso in mano il progetto una volta tornato in Italia. L’idea centrale, certo, è mia e il repertorio è costituito da mie composizioni, ma è una musica collettiva, pensata per questo gruppo e senza l’apporto degli altri non sarebbe stato possibile né crearla, né suonarla. Sto parlando di: Francesco Panconesi, sax tenore, Jacopo Fagioli, tromba, Mattia Galeotti, batteria, e Amedeo Verniani, contrabbasso. Questo quintetto non è il classico gruppo con un leader, io porto materiali, strutture, idee e poi tutti insieme, suoniamo, proviamo, scegliendo direzioni diverse. Poi, ecco, la decisione finale spetta a me. L’intenzione, naturalmente, è di produrre ancora altra musica e approfondire il nostro sound».

Il disco è stato registrato tra gennaio e febbraio di quest’anno al Cicaleto Recording Studio di Francesco Ponticelli a Sargiano, poco fuori Arezzo: «Un posto meraviglioso, lo consiglio assolutamente. Francesco è bravissimo, attento a ogni dettaglio. Inoltre, sapevo che ci sarebbe stato possibile suonare e registrare in presa diretta tutti insieme nella stessa sala pur mantenendo un elevato livello di dettaglio per ogni strumento grazie alle caratteristiche tecniche dello studio. Questo è stato fondamentale per la riuscita del progetto e del suono che avevo in mente, insieme all’opera di mixaggio e mastering di Stefano Bechini, con il quale ho lavorato a stretto contatto per diversi mesi».

La realizzazione di questo album è un passaggio fondamentale nella vita di Federico, che a partire da questo autunno porterà la sua musica in giro per l’Italia.

Kris Davis e Craig Taborn tra gli autori preferiti da Federico Nuti che dopo anni di studio, insegnamento, serate ed esperienze dal vivo può già guardarsi indietro per capire se la strada è quella giusta: «Nel percorso fatto fino ad ora tutto è accaduto quando doveva accadere. Certo la mia carriera artistica è all’inizio, ma il mio è un percorso in divenire. Adesso ho l’opportunità di proporre un valore musicale, qualcosa in cui credo, il che è un buon punto di partenza: da qui a dieci anni? Vedo altri album, da solista o con il gruppo di adesso, insegnante al conservatorio o con un mio studio privato. Per questo, però, è ancora presto».

Perfezionismo e fame di musica e di vita. Sono queste le tre componenti principali del Federico uomo e musicista, due aspetti inseparabili: «Un pregio? Sapere mettere insieme le persone, creando situazioni in cui tutti stanno bene. Difetto? A volte ci metto un po’ a lasciare andare le cose, volendo controllare tutto, troppo. Un po’ come nella vita reale. Per la mia esperienza la musica insegna moltissimo quando si è in gruppo, perché in quei momenti capisci te stesso e come relazionarti agli altri. La famiglia? Mi ha sempre sostenuto, anche quando ho lasciato la facoltà di Medicina per il jazz, nonostante le ovvie perplessità. Diciamo che la mia dedizione ha convinto i miei (ride, ndr). Adesso spero di ripagare tutta questa fiducia».

InFormal setting

Come recitava John Donne: «Nessun uomo è un’isola, completo in sé stesso; ogni uomo è un pezzo del continente, una parte del tutto». E, parafrasando, nessun musicista è un disco, ma il primo è certamente una parte fondamentale della sua musica e del suo futuro, nel jazz.