La libertà, di pensiero e di espressione, come stella polare, il senso di colpa come abitudine per ribellarsi all’assuefazione del peggio, la provocazione come arma. Queste sono solamente alcune delle caratteristiche, umane e professionali, di Alessandro Gori, considerato dagli addetti ai lavori lo scrittore comico più bravo d’Italia, sorto artisticamente come Lo Sgargabonzi: «Sono nato nello stesso giorno di Donald Trump, Che Guevara, Guccini, la Nannini, Boy George, Scialpi, Rutelli e Alois Alzheimer, e nello stesso in cui è morto Leopardi».
Già autore di quattro libri, il quinto per Rizzoli Lizard è fresco di stampa e il titolo è tutto un programma: «Confessioni di una coppia scambista al figlio morente». Alessandro, che vive a Tegoleto, nel comune di Civitella in Val di Chiana, cerca di conquistare il lettore e lo spettatore, quando, come in questo momento, è in tour con i suoi monologhi, con la rabbia e l’imbarazzo, la morbosità e la violenza, la malinconia e la cupezza, evitando continuamente l’esercizio di stile, anche se durante l’intervista è difficile comprendere il confine.
L’antidoto contro l’imborghesimento letterario è quello di scrivere sempre ciò che vuole, in estrema libertà, solo così riesce a essere sé stesso, a tenere a bada anche i ‘demoni’ del successo e a continuare sul proprio filo conduttore, dal quale niente e nessuno è riuscito mai a distoglierlo: «Ogni mio scritto lo intendo come una macchia di Rorschach. La libertà per me è la conditio sine qua non per creare una storia, altrimenti mi deprimo e rinuncio. Quello che scrivo deve piacere a me, se poi trova un pubblico tanto meglio. Sono un figlio unico viziato e sono attratto solo da quello che mi dà piacere».
Nell’ultimo libro – ha scritto Cagliostro Soncini su Vanity Fair – «Siamo tutti in bilico, sembra volerci suggerire, su quell’esile grissino da tonno in scatola con cui ci illudevamo di tagliare le tenebre e penetrare il mondo»: «Non mi sono mai posto il problema di dover piacere agli altri – sottolinea Alessandro – e il mio ultimo libro ne è un esempio. È un’antologia di trentanove racconti molto diversi l’uno dall’altro ma ognuno collegato con un filo rosso al successivo, con simmetrie, refrain e personaggi che ritornano da racconto a racconto. Una sorta di rapsodia prog». Il libro cui si dichiara più affezionato, però, è Bolbo (2014), una sorta di romanzo destrutturato: «È il libro che più mi racconta, seppur in maniera molto astratta. Fu scritto in un periodo bellissimo. Al contrario degli anni in cui ho vergato Confessioni di una coppia scambista al figlio morente e che lo rendono il mio libro più autunnale, e conta che della pandemia non mi sono nemmeno accorto». Come ha scritto Gianluigi Simonetti su Tuttolibri de La Stampa: «Le chiacchiere del mondo sono convocate e frullate per negare il mondo stesso, e inventarsene un altro, dove tutto è possibile […] Non c’è un personaggio che sia positivo ma anche i più orrendi sono sofferenti […] il vero tema di Gori è il Tempo che passa. Che è come dire la morte…».
E se gli chiedete qual è il segreto della sua scrittura ecco che vi prende, ancora una volta, in contropiede: «Non ho mai avuto nessuna disciplina né metodo. Non essendo mai stato un lettore – avrò letto dieci libri in vita mia –, non ho mai voluto fare lo scrittore. Il mio sogno era diventare un musicista ma ho sempre saputo di non averne le qualità. Ho scelto di fare quello che sentivo di saper fare, invece che quello che mi piaceva. Ma non amo scrivere, lo trovo faticoso. Non a caso non ho mai voglia di mettermi a scrivere, lo faccio solo perché motivato dal risultato finale. Quello sì mi piace», come un Pantani della penna che si arrampica sulle parole perché l’agonia della fatica finisca prima possibile. Eppure è sempre lì, pronto a scrivere il suo sesto libro con il materiale accumulato in quest’ultimo periodo di fermo obbligato: «Scrivere libri mi piace» e qui siamo al tunnel.
Libri e serate dove racconta sé stesso, dove il pubblico è ospite a ‘casa sua’, pubblico con il quale non interagisce ma seduce con le proprie parole, questa è la sua comfort zone, dalla quale ogni tanto esce, come la comparsata a Una pezza di Lundini e la rubrica che scrive per Rolling Stone: argomento? A piacere, in estrema libertà, l’unico modo per averlo e gestirlo, si fa per dire. Nel frattempo il pubblico che seguiva Lo Sgargabonzi, e oggi Alessandro Gori, si è allargato e l’età media si è abbassata, con uno zoccolo duro che lo segue da sempre: «Mi sorprendo di quante persone ci siano a cui sto antipatico, ma mi va bene». Non ha mai lasciato Tegoleto, paese da sempre conosciuto per la storica e coriacea squadra di calcio: «Ho sempre rifiutato lavori anche ghiotti ma per i quali avrei dovuto trasferirmi a Roma o a Milano. Non mi sposterei mai dalla casa dove sono nato e dove, modestamente, vorrei crepare», una specie di livella moderna, in cui puoi essere locale e globale insieme senza snaturarti, cosa che sicuramente Alessandro non ha mai fatto.
Se deve raccontare e spiegare sé stesso ecco il paragone preferito che negli anni ripete come un mantra: «Ci sono modi diversi per palesarsi a un pubblico. A Carmelo Bene non interessava certo sensibilizzare o migliorare il mondo, metteva sempre sé stesso davanti a tutto il resto. Moni Ovadia, invece, porta in scena la propria passione civile, un invito a riflettere, ad aprirsi al mondo e se possibile a migliorarsi. Io preferisco l’atteggiamento del primo, che poi è lo stesso di Alfredo Cerruti degli Squallor, la mia cometa comica. Senza volermi accostare a un mostro sacro come Cerruti, mi ci riconosco di più. A me non piace, davanti a uno spettacolo, toccarmi il mento da intenditore e uscire un essere umano migliore. Io amo le persone più per le loro cose sbagliate che per quelle giuste. Prendi Franco Califano, il mio cantautore preferito. Molti dicono “bravo, peccato fosse missino”. Ma io penso che quell’aspetto era armonico col suo essere. Un artista deve sedurmi al di là del bene e del male», come il giornalista che ascolta le parole vergate dalla voce profonda di Alessandro Gori.
Alessandro, alias Lo Sgargabonzi, ha iniziato con l’omonimo blog, ma non era un blogger, laureato in Psicologia si è messo in lista per una supplenza ma non ha mai insegnato, del liceo classico diceva: «Un istituto di stampo classista e militare che mi ha tolto la leggerezza e la gioia dell’adolescenza, me lo sarei risparmiato volentieri. Non ho imparato niente sui banchi di scuola, ma sempre e solo dalle mie passioni». E, a proposito di passioni, dei fumetti preferisce quelli ‘bonelliani’, da Magico Vento a Napoleone: «Ho cambiato il nome della pagina da Sgargabonzi ad Alessandro Gori perché mi chiamavano così, col nome buffo di una pagina. Mi sembrava di essere il Gabibbo».
Alessandro Gori non si nega nemmeno sui social, Facebook, dove scrive post provocatori o surreali: «È come quando sei al telefono e scarabocchi su un block notes, niente di più. Scrivere libri o monologhi è tutt’altra cosa. Ho sempre rifiutato le proposte di raccogliere i miei status in un libro, non mi darebbe alcuna soddisfazione».
La battuta, per lui, non deve fare ridere a crepapelle, la risata deve essere strozzata, triste, verde, ti deve fare, quasi, anzi senza il quasi, vergognare: «Io non penso che un bravo comico debba essere un misantropo. Per me l’unica risata possibile è quella del condannato a morte. La risata è l’atto disperato dell’uomo di fronte al suo destino ultimo. Ti racconta la sua solitudine, il terrore e il fiato che manca. Molti pensano che l’umorismo nero serva a sdrammatizzare la morte. Io cerco, al contrario, di drammatizzarla, specie in tempi di social, in cui te la raccontano come una cosa coloratissima e aggregante che non vedi l’ora che ti succeda. Io provo una grande tenerezza per l’essere umano, per il suo irrisolto, la sua finitezza, i suoi meandri e le sue atrocità. Ho molto meno rispetto per la natura invece, che ci consuma, ci umilia, ci fa morire e ci mostra i nostri genitori che si sfasciano davanti ai nostri occhi. In Confessioni di una coppia scambista al figlio morente racconto per astrazioni la mia parte più intima, personale, per certi versi disperatamente autistica. C’è uno sguardo costante verso il passato, come se il meglio fosse costantemente alle spalle e il presente un incubo fulciano».
Alessandro Gori è anche uno che apprezza i complimenti e che è contento di avere trovato un pubblico per le sue parole in libertà. Anche se prende tutto con leggerezza e nichilismo insieme: «In questi anni mi hanno chiesto di fare tante cose, dal cinema alla televisione, ma ho quasi sempre detto di no, perché sono cose che non mi darebbero alcun piacere». Ma è contento del suo nuovo libro, presto arriveranno anche le prime presentazioni, così come del suo tour e delle sue serate, alle quali non rinuncerebbe mai. E se ama farsi fotografare sempre a volto coperto, così come quando è andato da Lundini, è solo perché gli piace così, fuori dagli schemi, fuori da qualsiasi categoria che ne possa limitare la libertà. E in questo giocare a nascondino con le parole c’è tutta la sua vita e il suo modo di pensare che ha trovato uno sbocco pubblico. Un pubblico che deve avere lo stomaco giusto per digerirlo.