È “il” legno il protagonista: quello dell’albero più antico, quello fra le cui venature era scorso il sangue di Cristo, quello in grado di accompagnare attraverso la morte e ridare la vita. Un lungo, intenso e straordinario viaggio per immagini, fra geometria,estetica e simbolismo. Sospeso fra storia e… leggenda
C’è stato un tempo in cui quella croce non era soltanto il simbolo della cristianità. Non un oggetto davanti al quale inginocchiarsi chiedendo aiuto o perdono. C’è stato un tempo in cui la semplicità di due legni che, perpendicolarmente, si trafiggono, doveva esercitare un potere tale da muovere interi popoli. Le persone si consumavano dallo struggente desiderio di avere un contatto con quel sacro simbolo: la voglia di vederlo, baciarlo, comprenderlo. La croce della morte e della rinascita, delle sofferenze e della speranza, del giudizio e della salvezza.
La realizzazione
Corre l’anno 1452 quando Bicci di Lorenzo, artista designato dalla ricca famiglia di mercanti di Arezzo, i Bacci, per dipingere il ciclo di affreschi dentro la chiesa di San Francesco, muore lasciando incompiuto il lavoro. Subentra così Piero della Francesca, che si dedica all’opera con lentezza: l’ultimo pagamento documentato è del 1466. Nel mezzo, persino un soggiorno a Roma, chiamato da papa Niccolò V per dipingere le stanze vaticane.
Quando si appresta a decorare la cappella Bacci, sa che dovrà riuscire a inquadrare la sua arte rivoluzionaria, geometrica e prospettica in un vano gotico; concepire qualcosa di dirompente su una strada già troppe volte battuta da altri.
Storia di una leggenda
Tema scelto? La storia della Vera Croce, desunta da un’opera medievale celebre, la “Legenda Aurea” di Jacopo da Varagine. Protagonista “Il” legno: quello dell’albero più antico, quello fra le cui venature era scorso il sangue di Cristo, quello in grado di accompagnare attraverso la morte e ridare la vita.
La storia di questa leggenda è lunga e complessa: un groviglio di tradizioni, varianti e interpretazioni che abbraccia pellegrini, racconti di viaggiatori e testi sacri fra mito e storia.
Nella versione di Jacopo da Varagine la narrazione inizia al tempo di Adamo, quando il primo uomo, sentendo la morte toccargli la spalla, manda il figlio Seth alle porte del Paradiso per ottenere l’olio della misericordia. L’arcangelo Michele, invece, dona al giovane i semi dell’albero della vita, invitandolo a collocarli sotto la lingua del padre al momento della sepoltura. Da questi germoglia l’albero destinato a diventare leggenda. Si passa al 967 a.C. quando il re Salomone, durante la costruzione del tempio di Gerusalemme, ordina che la pianta venga abbattuta e utilizzata. Ma gli operai non riescono a trovare collocazione al materiale dell’albero: i rami sono sempre o troppo corti o troppo lunghi e, anche se vengono tagliati a misura, sembra abbiano il potere di ridursi o ampliarsi. I lavoratori, spazientiti, decidono di usare la pianta come semplice passerella sul fiume. La regina di Saba, trovatasi a varcare il torrente, ha la visione del futuro della tavola e si inginocchia in adorazione. Avverte della profezia Salomone che, preoccupato per i lutti e le sciagure che avrebbe portato al popolo ebraico oppure intenzionato a proteggere l’oggetto, decide di farlo sotterrare. Le tracce si perdono fino all’anno della morte di Gesù quando il legno viene ritrovato e con esso costruita la croce.
Poi nuovo oblio fino al 312. E’ la notte prima dello scontro con Massenzio e, all’imperatore romano Costantino, appare in sogno una croce, luminosa e potente con la scritta “in hoc signo vinces”. L’imperatore diventa baluardo della Cristianità, decidendo di guidare le sue truppe sotto il simbolo della croce e, nella battaglia di Ponte Milvo, conquista una storica vittoria.
Costantino invia allora la madre Elena a Gerusalemme per cercare la croce della crocefissione e lei, per assolvere il compito, tormenta e tortura gli ebrei. Uno di essi, guarda caso di nome Giuda, calato in un pozzo e afflitto dalla fame, rivela il luogo della sepoltura. Vengono così alla luce le tre croci del Golgota, quella di Gesù e quelle dei due ladroni. Per capire quale sia quella autentica, Elena sfiora con i legni un defunto che, al contatto con la Vera Croce, risorge. Il legno viene diviso in diverse parti e il più grande viene lasciato a Gerusalemme.
La città santa custodisce le reliquie fino al VII secolo quando l’impero persiano, guidato dal re Cosroe II, riesce a espugnare le mura e la croce viene trafugata. Dopo anni di sanguinose battaglie, il sacro simbolo è recuperato dall’imperatore di Bisanzio, Eraclio, con la vittoria sulle rive del Danubio.
Il re, vestito da umile pellegrino con in spalla la croce, torna a Gerusalemme il 21 marzo del 630, acclamato dal popolo.
L’ordine sconvolto
Questa la storia dipinta da un punto di vista cronologico. Un ordine che non combacia con quello estetico, matematico e teologico-filosofico che guida la mano di Piero della Francesca. “Dipingere – diceva – non è altro che disegno, proporzione di misure e colore”. L’opera, per lui, assume valore nell’impatto d’insieme. Tutto deve essere studiato e calibrato. Tutto ha una sua collocazione precisa. Sia nella forma, sia nel significato.
Da un punto di vista iconografico, Piero aveva a disposizione come modelli gli affreschi di Agnolo Gaddi nel coro di Santa Croce a Firenze, quelli di Cenni di Francesco nella cappella della Croce di Giorno a Volterra e quelli di Masolino nella cappella di Sant’Elena a Empoli.
Decide di andare oltre. Proviamo a stendere, come un rotolo di pergamena, le tre pareti dipinte da Piero e mettere a confronto quella di destra con quella di sinistra. I dipinti sono disposti su tre registri distinti. Nei lunettoni archiacuti, in alto, la scena è divisa verticalmente da un albero, nei rettangoli di mezzo figurano scene di corte con a sinistra spazi all’aperto e a destra aree al chiuso o ben delimitate. Nel registro in basso le due battaglie con, in entrambi i casi, a sinistra i vincitori e a destra i vinti. Adesso la parete frontale: al centro i due profeti sono speculari, sotto, in rilievo, le diagonali dei legni e, in basso, le due annunciazioni, le chiavi di volta della storia.
Non è solo forma. Come in un orologio, la prima scena toccata dalla lancetta è quella in alto a destra. Si svolgono tre momenti ai piedi dell’albero: Adamo morente che chiede al figlio di procurarsi l’olio della misericordia, il dialogo fra Seth e l’arcangelo Michele e la morte del primo uomo sulla terra accompagnata dalla disperazione e dallo sgomento dei presenti. Eppure la protagonista è la rigogliosa pianta, è di essa che si narrano le vicende. Non a caso, infatti, l’altra lunetta, quella di sinistra, chiude e completa il ciclo. La croce di Cristo, il nuovo albero della vita, viene riportato a casa, a Gerusalemme. Al peccato originale di Adamo si contrappone la devozione di Eraclio che, con abiti da pellegrino, scende da cavallo per compiere il gesto da umile servitore. Centrale è la croce salvifica alla fine del suo tormentato viaggio.
Anche le scene nel riquadro in mezzo si comprendono insieme. Alla destra il legno che viene riconosciuto dalla regina di Saba e quindi sepolto dal re Salomone. Alla sinistra la croce che viene dissotterrata, riportata alla luce da Elena e, di nuovo, riconosciuta con il compimento di un miracolo.
Scene di battaglia: i tratti sono rallentati, i personaggi quasi statici. Quella di sinistra più cruenta e soffocante – si combatte l’idrolatria – contrapposta a quella di destra volutamente non violenta, qui anche la natura e la quiete trovano spazio.
Passiamo poi ai due momenti in cui l’angelo si presenta per portare un messaggio dal cielo modificando l’andamento della storia dell’uomo. A sinistra l’annunciazione a Maria, una scena non prevista nella leggenda della Vera Croce. La palma che l’angelo stringe fra le mani al posto del tradizionale giglio, crea molti dubbi sull’interpretazione della notizia. A destra di nuovo un angelo. Questa volta ha in mano una croce, il simbolo che condurrà l’esercito alla vittoria. E’ l’elegante e celeberrimo notturno di Piero, una delle pietre angolari della storia della pittura.
Le tenebre trapuntate di stelle si arrendono alle prime luci dell’alba. La tenda, aperta e sorvegliata da due guardie, lascia intravedere l’imperatore Costantino, addormentato, mentre un altro personaggio, ai suoi piedi, veglia sul sonno. Egli guarda verso lo spettatore attirando la sua attenzione per poi direzionarla verso la guardia, voltata di spalle. La lancia, stretta nella mano di quest’ultimo, indica l’angelo. L’occhio vede la croce prima di spostarsi sul dormiente, poi, conseguentemente, sull’altra guardia che tende la mazza verso il primo personaggio. Si chiude il cerchio.
La luce mistica sembra emanata dal sacro oggetto. Accende il giaciglio, lasciando nella penombra i soldati e lo sfondo.
Uno stile unico
La pittura di Piero è maestosa, in grado di forgiare figure che occupano solennemente gli spazi loro riservati in un gioco di equilibri formali. Uno studio geometrico certosino, linee rette e curve, vuoti e volumi, colori compositi. La forma diventa sostanza, nel complesso armonico che il pennello sa costruire, la calma placida delle figure riflette quella dell’artista, che invita lo spettatore alla meditazione di fronte allo spettacolo che ha di fronte a sé. “Est rebus in modus”, diceva il poeta latino Orazio: l’equilibrio, il giusto “mezzo”, la fuga dagli eccessi. Le passioni umane fanno largo alla razionalità e, quindi, alla bellezza nella concezione rinascimentale pierfrancescana. La luce tenue, il tempo sospeso, gli sguardi profondi, l’atmosfera eterna. Piero ci conduce per mano in una ricerca religiosa e al contempo laica, attraverso un’ illuminata consapevolezza. Un invito all’incontro e al dialogo etico e culturale.
I tanti ammiratori
L’incanto della Leggenda della Croce, narrata da Piero della Francesca, ha attirato e continua ad attrarre ad Arezzo migliaia di visitatori da tutto il mondo, desiderosi di concedersi un respiro di eterna bellezza. Fra questi ci sono stati Gabriele d’Annunzio che ha definito gli affreschi di San Francesco «il giardino di Piero», Andrè Suarès, William Weaver e i premi nobel Josè Saramago e Gabriel Garcia Marquez. Anche Pier Paolo Pasolini si trovava ad Arezzo negli anni 60 per far visita all’amico Ninetto Davoli che prestava servizio militare in città; la visita alla cappella Bacci ispirò il componimento poetico “La ricchezza” che apre la raccolta “La religione del mio tempo”. Il ciclo della Vera Croce è presente in una delle scene più famose del film “Il paziente inglese” del regista americano Antony Minghella: Hana e l’arteficiere entrano in una chiesa abbandonata. La facciata è quella del Duomo di Montepulciano ma l’interno è quello della cappella Bacci. Una visione di perfezione, arte e spiritualità in mezzo a tanta devastazione. Nell’album Banga del 2012 di Patty Smith c’è una canzone dal titolo Constantine’s dream, scritta grazie al sodalizio artistico con la Casa del vento, che inizia così: “In Arezzo I dreamed a dream”.
E la crocifissione?
Ma perché in un ciclo di affreschi che narrano le vicende della croce di Cristo non figura il momento della crocifissione? Perché il crocefisso già è presente. Come in ogni chiesa. Piero lo sa bene. Basta fare qualche passo indietro e notare che i dipinti non fanno altro che incorniciare ed esaltare la Vera Croce, sospesa sopra l’altare. Non più simbolo di patimento, ma di umana liberazione.