Chi bussa alla porta di uno psicologo? Com’è cambiata la professione a seguito della pandemia? Quali sono i consigli dell’esperto per cercare la serenità nella vita quotidiana? Risponde la dottoressa Alessia Cerone La Gatta, specializzata in psicoterapia sistemico relazionale e familiare. “Tutto parte dai nostri bisogni. Dobbiamo imparare ad ascoltarli e comprenderli”

Lo abbiamo pensato tutti, almeno una volta: “Perchè dovrei aver bisogno di uno psicologo? Dallo psicologo vanno i pazzi. Io sto bene, posso farcela da solo”. Così come diffusa è l’idea che fare affidamento solo sui propri mezzi per superare un periodo difficile sia sintomo di grande forza di volontà, mentre chiedere aiuto ad uno specialista significhi scoprirsi deboli, aver perso il controllo della propria vita. Per questo molte persone, ancora oggi, anche se avvertono (e spesso sono consapevoli) di aver bisogno di un aiuto per superare un momento di buio – o anche di fastidiosa penombra – non hanno il coraggio di rivolgersi a uno psicologo o uno psicoterapeuta. Preconcetto sociale, paura del giudizio, timore di confrontarsi con se stessi. La percezione, a dire la verità, è un po’ migliorata negli ultimi anni e persone di tutte le età si sono avvicinate a piccoli passi alla terapia allentando la propria diffidenza. Poi l’arrivo del Covid e, con esso, il distanziamento sociale, l’isolamento, le ansie, le insicurezze. Ha portato dolore e forti condizioni di stress. Ma non è solo per questo che molti hanno deciso di recarsi da uno specialista.

“Il Covid ha ‘autorizzato’ le persone a chiedere aiuto. Ha fornito una valida ragione per sentirsi vulnerabili, per ammettere i propri limiti”.

Alessia Cerone La Gatta, classe ’86, nata a Fiesole, cresciuta ad Arezzo, è psicologa e psicoterapeuta individuale, specializzata in psicoterapia sistemico relazionale e familiare. Dopo aver conseguito la laurea a Firenze nel 2011 e aver sostenuto l’esame di Stato, ha svolto il tirocinio prima al Centro di terapia strategica, sotto la supervisione di Giorgio Nardone, poi all’Istituto di terapia familiare di Firenze. Ha conseguito la specializzazione con lode con il maestro Rodolfo De Bernart per diventare psicoterapeuta nel 2017.

“Successivamente mi sono specializzata in attaccamento e psicopatologia, infertilità e sterilità individuale e di coppia e sessuologia. Oggi svolgo la mia attività di libera professione ad Arezzo, negli studi medici del poliambulatorio SanAr,  e presso il centro Comete Arezzo-Valdarno nella sede di Figline e Incisa Valdarno. Sono socia dell’Associazione degli istituti di terapia familiare, membro del centro Comete Arezzo-Valdarno e socia dell’associazione nazionale Comete”.

Chi bussa alla sua porta?

Non esistono categorie specifiche di persone che hanno bisogno di uno psicologo o uno psicoterapeuta. Il trattamento è indicato in tutte quelle condizioni in cui la sofferenza psicologica ostacola il raggiungimento o il mantenimento dello stato di benessere desiderato. E tutti, nel corso della vita, ci troviamo ad affrontare momenti difficili in cui ci sentiamo smarriti. Basta saperli riconoscere e muoversi di conseguenza. Così come, se abbiamo dolore ad un dente, andiamo dal dentista.

Perché è così difficile capire e ammettere di aver bisogno di un supporto psicologico?

Quando siamo bambini sappiamo esprimere i nostri bisogni, liberare le emozioni, mostrare paure e insicurezze: i bambini, a modo loro, sanno chiedere aiuto. Poi smettiamo di ascoltarci, di comunicare con il nostro corpo. Il confronto con noi stessi spaventa. Così lo eludiamo attraverso l’adozione di schemi abituali di comportamento. Ignoriamo le ferite, le nascondiamo dietro l’immagine di noi che abbiamo deciso di trasmettere. Ma così non guariscono e continuano a far male.

Lei come riesce ad aiutare le persone che si sentono in difficoltà?

Intraprendendo un viaggio insieme a loro. In psicoterapia il mezzo più efficace di cui disponiamo per curare, e per entrare in relazione con il paziente, siamo noi stessi. Dal mio maestro Rodolfo De Bernart, padre della terapia familiare, recentemente scomparso, ho imparato che fare lo psicoterapeuta significa stare a contatto con la sofferenza dell’altro, mettendosi in una forma di ascolto diverso. Serve tempo. E volontà. Le ferite vanno cercate, capite, aperte e poi richiuse. Oppure individuate e accettate. La terapia non ha la finalità di riparare ciò che è disfunzionale, ma rappresenta un percorso in cui la persona si confronta e sperimenta la dimensione dell’incontro con l’altro.

Qual è il suo metodo?

Il mio approccio è di tipo sistemico relazionale. Non si può isolare un atteggiamento, la persona va ascoltata e compresa in relazione al proprio contesto di vita e alle relazioni passate e presenti. Le sofferenze che l’individuo manifesta possono innescare dei processi di colpevolizzazione, d’isolamento e senso di inadeguatezza. Per questo le difficoltà devono essere individuate e rilette, attraverso un processo di elaborazione dei nodi traumatici.

Com’è cambiato il suo lavoro negli ultimi due anni?

Si è trasformato molto. Per prima cosa sono aumentate le richieste. Quando la pandemia ha sconvolto la realtà di tutti noi, nella nostra professione abbiamo assistito ad uno sconcertante silenzio. Consapevoli, ovviamente, dell’onda d’urto che sarebbe giunta prepotentemente di lì a pochi mesi. Così è stato. Veramente tanti hanno deciso di intraprendere un percorso terapeutico alla luce di quello che stava succedendo. Si sono sentiti quasi giustificati. Si sono permessi di chiedere aiuto. Poi abbiamo dovuto sperimentare nuovi metodi come le sedute on line. Non è stato semplice inizialmente ma ho dei pazienti che, ancora oggi che è possibile tornare in studio, preferiscono usare questi mezzi.

Il dolore degli altri non fa soffrire anche lei?

Certo, è naturale. Ed è normale che sia così. Ma la formazione aiuta proprio in questo. A gestire le cosiddette “risonanze”. Non possiamo permetterci di perdere oggettività.

E cosa fa nel tempo libero, per ossigenare la mente e non pensare al lavoro?

Io amo quello che faccio e non smetto mai di formarmi, di studiare, di cercare nuovi campi e nuovi stimoli. Da maggio, per esempio, lavoro insieme ad una equipe clinica in una comunità per tossicodipendenti a Baciano. La sera però mi concedo qualche camminata per rilassarmi e ritrovare me stessa. E medito, dovrebbero farlo tutti.

A proposito di consigli, c’è qualcosa che potrebbe suggerire a ciascuno, applicabile nella vita quotidiana?

Di trovare, ogni giorno, del tempo da trascorrere con se stessi. Per conoscersi, ascoltarsi e comprendersi. Tutto parte dai nostri bisogni. La mancanza di momenti liberi non può e non deve essere una scusa. E’ un investimento prezioso nella ricerca dell’armonia.

 

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Chiara Calcagno Ostinatamente giornalista, scrivo per lavoro, per piacere, per fare la spesa. Mi nutro di bellezza, di mare, di vigne e di cinghiale in umido. Quello di mia nonna. Vorrei avere capelli sempre in ordine e mani curate ma perdo troppo tempo a cercare le chiavi dentro la borsa.