Gli amaranto hanno riconquistato la serie C davanti a 6.500 persone, tutte entusiaste, tutte col cuore in gola, tutte sospese, dopo il fischio finale dell’arbitro, tra gioia e incredulità. Perché da queste parti vincere non è mai stata un’abitudine. Eppure stavolta si festeggia con un senso di liberazione, quasi che l’impresa compiuta sia il prologo a un’era nuova, più solida, meno improvvisata. Del resto il 2023 è l’anno del centenario e sognare in grande è un po’ più facile
Bandiere al vento e una felicità stralunata, tipica di chi vince senza avere l’abitudine a farlo. L’Arezzo ha riconquistato la serie C davanti a 6.500 persone, tutte entusiaste, tutte col cuore in gola, tutte sospese, dopo il fischio finale dell’arbitro, tra gioia e incredulità.
Chi segue le vicende amaranto sa bene che momenti del genere, in cent’anni di storia, sono capitati di rado. E, per un motivo o per l’altro, sono evaporati in fretta. L’ultima serie B è durata tre stagioni. L’ultima serie C sei. Negli ultimi trent’anni l’Arezzo ha giocato nove volte tra i dilettanti, confinato in questo limbo calcistico per colpa di gestioni scellerate e congiure degli eventi. Un po’ vittima, un po’ colpevole, la società è passata da cento mani e non ha trovato mai la stabilità necessaria per evitare capitomboli fragorosi.
Quando allo stadio venne celebrata la prima promozione in serie B, nel 1966, sulle tribune sventolava un due aste con la scritta “tormento ed estasi”. Riguardo il primo si potrebbero citare numerosi accadimenti, non ultima la retrocessione del 2021 con 6 milioni di euro gettati letteralmente al vento. Per quanto riguarda l’estasi, invece, la lista è decisamente più succinta.
La giornata del 16 aprile però vi rientra a pieno titolo: attesa, sospirata, insolitamente programmata per tempo, con tutte le tessere del mosaico al loro posto e quella rasserenante sensazione di avere il vento alle spalle che dura dall’inizio del campionato. Va tenuto in memoria quel pomeriggio. Va tenuto nel cuore. Tutta quella gente, tutta quell’atmosfera, tutto quel fervore: ad Arezzo queste cose solitamente non capitano. Vincere con il tutto esaurito, rimontare nello scontro diretto, festeggiare come da copione, dopo i panini e la birra nel prepartita, dopo una settimana trascorsa pregustando il gran finale: ma quando mai?
Invece la storia ha cambiato verso ed è giusto così. Forse è solo suggestione, e il coinvolgimento emotivo toglie lucidità, ma c’è un che di risarcitorio in questa umile, partecipata e significativa vittoria in serie D. Il 17 aprile 1993 l’Arezzo venne radiato dalla terza serie nazionale. Trent’anni dopo ci torna con decine di ragazzini che alzano le sciarpe al cielo e centinaia di adulti che un po’ ridono e un po’ strozzano la voce per l’emozione, un po’ cantano e un po’ si asciugano gli occhi lucidi, un po’ pregustano il domani e un po’ immalinconiscono per quanto tempo è passato.
Si dibatte spesso se il calcio sia veramente un veicolo di riscatto, anche sociale, o se ormai sia semplicemente una valvola di sfogo, dove se vinci ti applaudono e se non vinci ti prendono a sassate. Perché da un lato ci sono valori come l’attaccamento alla maglia, ai colori sociali, a un simbolo identitario qual è la squadra della città, e dall’altro le storture di uno sport che, anche a livelli più bassi, è specchio delle tensioni del mondo d’oggi, pretesto per scaricare le ansie quotidiane in un’ora e mezzo di partita.
Discorso lungo. La verità, se si riesce a scavalcare i luoghi comuni, è che la sintesi migliore l’ha offerta la curva sud Lauro Minghelli, vergandola in un lunghissimo striscione che recitava: “passione viscerale, orgoglio popolare”. Ecco cos’è il calcio, un po’ ovunque e anche ad Arezzo, in un ambiente di provincia a volte troppo provinciale, tutt’oggi mediamente ricco ma che la ricchezza preferisce tenersela sotto la giacca piuttosto che condividerla, magari investendola nello sport.
Anche per questo, forse, l’Arezzo non è mai arrivato in serie A. Ed è per questo, di sicuro, che oggi in migliaia avvertono un senso di liberazione, quasi che l’impresa compiuta sia il prologo a un’era nuova, più solida, meno improvvisata. Del resto il 2023 è l’anno del centenario e sognare in grande viene facile. Bandiere al vento, dunque, l’Arezzo è ritornato.
“Va tenuto in memoria quel 16 aprile. Va tenuto nel cuore. Tutta quella gente, tutta quell’atmosfera, tutto quel fervore: ad Arezzo queste cose solitamente non capitano”