Le vicende di un antico monastero benedettino caratterizzano da secoli la vita di uno dei luoghi più affascinanti del centro storico di Arezzo. Qui si respira ancora un’aria romantica, colta e popolare allo stesso tempo
Geolocalizzazione
Non ci troverete mai le file di turisti che attendono di visitare un ciclo pittorico rinascimentale, né le folle serali della movida, entrambe prerogative della vicina piazza San Francesco, ma se volete ancora respirare un’Arezzo romantica, colta e popolare allo stesso tempo, piazza della Badia, lungo l’odierna Via Cavour, ovvero l’antica via di Vallelunga, fa al caso vostro. Ci troverete capolavori architettonici e pittorici del passato, due gallerie d’arte contemporanea, locali dove assaggiare i prodotti tipici dell’enogastronomia locale e molto altro.
I benedettini entrano in città
La piazza prende il nome dalla badia delle sante Flora e Lucilla, oggi plesso scolastico. Fino al 1196 i monaci benedettini avevano la loro sede fortificata a Torrita di Olmo, ma il Comune di Arezzo li costrinse a entrare in città per limitare la loro sfera d’influenza. Dopo aver usufruito di sedi provvisorie, nel 1209 si stabilirono nel nuovo monastero a ridosso della cinta duecentesca. Nel 1315 il complesso venne rinnovato, ma interventi più importanti ci furono dal 1489 con la realizzazione dello splendido chiostro rinascimentale che si rifaceva al progetto redatto anni prima da Giuliano da Maiano (1432-1490).
I lavori proseguirono anche nel secolo seguente con un secondo chiostro più piccolo e il refettorio del 1525, che nel 1549 accolse lo spettacolare “Convito per le nozze di Ester e Assuero” di Giorgio Vasari (1511-1574), oggi nel Museo di Arte Medievale e Moderna. Fino al 1810 rimase in mano ai benedettini, ma dopo le soppressioni napoleoniche e il loro allontanamento, trovò altri utilizzi.
Poste, scuole, musei e non solo
Fino alla caduta di Napoleone la badia ospitò alcuni uffici pubblici, quindi tornò luogo religioso per un breve periodo, gestito dagli agostiniani. Nel 1828 l’ex refettorio divenne sede dell’Accademia Petrarca, che vi rimase poco più di un secolo, mentre nel 1832 vennero aperte le Poste Granducali nella parte del chiostro piccolo, affiancando l’ufficio delle lettere e le scuderie dei cavalli che trasportavano la corrispondenza, già esistenti dal XVII secolo in un edificio che occupava una fetta della piazza, abbattuto nel 1880. Le poste restarono fino alla realizzazione, nel 1929, della nuova sede di via Guido Monaco.
A metà Ottocento partì l’adeguamento dell’ex monastero anche per uso scolastico. Nel 1859 furono aperte le elementari, nel 1863 le scuole tecniche e nel 1872 una scuola di agraria, ma è nel 1874 che arrivò la vera svolta, con l’apertura del Regio Istituto Tecnico “Buonarroti” e dei suoi quattro indirizzi: fisico-matematico, agrimensurale, agronomico e commerciale. Con la riforma Gentile del 1923 il primo orientamento si trasformò in Liceo Scientifico e a metà anni Trenta venne introdotto quello per geometri. L’indirizzo commerciale, meglio noto come Ragioneria, nel tempo divenne l’unico e continuò a crescere, diversificando la proposta in base all’evoluzione del mercato del lavoro. Oggi fa parte dell’Istituto d’istruzione superiore “Buonarroti – Fossombroni”.
Da non dimenticare che nel corso dell’Ottocento la badia ospitò per alcuni anni anche la Pinacoteca comunale e la Collezione Bartolini, mentre nel secolo successivo fu pure sede dell’Ufficio del Registro.
La chiesa della badia, uno scrigno d’arte
Il lato sud ovest della piazza è connotato dalla chiesa dell’ex monastero. Il primo edificio fu realizzato agli inizi del Duecento, ma negli anni Settanta di quel secolo ne fu costruito uno più grande, a navata unica, unendo lo stile romanico alle novità del gotico. Nuovi lavori ci furono nel Trecento e nella seconda metà del Quattrocento. Nel 1564, sulla base del progetto redatto da Giorgio Vasari, il luogo di culto fu rimaneggiato in stile manieristico, con l’aggiunta delle navate laterali, mentre il campanile ottagonale venne innalzato a più riprese tra il 1649 e il 1711. Gli interventi del 1914 misero in luce nella facciata l’articolata stratificazione della chiesa, ancora oggi uno degli scrigni d’arte più preziosi di Arezzo.
Di seguito l’elenco delle opere principali conservate, quasi tutte restaurate grazie alla sensibilità di Vezio Soldani, parroco dal 1980 al 2019. Tra parentesi l’autore e l’anno di realizzazione: “Pala Albergotti” (Giorgio Vasari, 1566-70), “Visitazione” (Giovanni Antonio Lappoli, 1524-26), “Crocifisso” (Baccio da Montelupo, 1504-10), “Madonna con il Bambino e i santi Mauro, Lucia e Luigi IX” (Bernardino Santini, anni Quaranta XVII sec.), “Crocifisso” (Segna di Bonaventura, 1319), “Matrimonio mistico di Santa Caterina” (Teofilo Torri, 1605-06), “Paliotto Mellini – Serragli” (Bernardo di Stefano Rosselli, 1478), “Finta cupola” (Andrea Pozzo, 1702), “Altare vasariano” (Giorgio Vasari e aiuti, 1562-64), “Santa Flora” e “Santa Lucilla” (Raffaello Vanni, 1651), “Tabernacolo” (Benedetto da Maiano, 1478), “San Mauro taumaturgo” (Paolo de Matteis, 1690), “Madonna della pappa” (Jacques Stella, prima metà XVII sec.), “Santi Benedetto e Scolastica” (Marco Mazzaroppi, 1606), “Vergine in gloria tra i santi Bartolomeo e Martino” (Marco Mazzaroppi, 1606), “Immacolata concezione” (Teofilo Torri, 1603), “San Lorenzo” (Bartolomeo della Gatta, 1476).
L’altare vasariano, un mausoleo di famiglia
Tra il 1562 e il 1564 Giorgio Vasari e i suoi collaboratori elevarono per l’altare maggiore della pieve il monumento sepolcrale che avrebbe accolto le sue spoglie, quelle della moglie e degli antenati, oltre ad alcune reliquie. Lì rimase fino al 1865, quando in seguito agli interventi che miravano a ripristinare l’aspetto medievale dell’edificio, la struttura impreziosita da vari dipinti su tavola con familiari e santi fu trasferita nella chiesa della badia. Il lato anteriore è scandito dalla “Vocazione dei santi Pietro, Andrea, Giacomo e Giovanni”, già realizzata nel 1551, mentre su retro si trova lo stupendo “San Giorgio e il drago” del fiammingo Giovanni Stradano (1523-1605).
Dai trasferimenti della pieve, nel 1865 arrivò anche la cosiddetta “Pala Albergotti”, un grande olio su tavola sempre di Vasari, formato da una parte centrale con la bella “Assunzione e Incoronazione della Vergine” del 1566, a cui nel 1570 furono aggiunti ai lati i santi Donato e Francesco e nella centina della cornice monumentale otto tavolette con ritratti di sante. L’opera fu oggetto di un mirabile restauro dello studio RICERCA, terminato nel 2011.
Il Crocifisso di Segna, capolavoro senese di inizio Trecento
A dominare l’altare maggiore della chiesa un tempo era un grande crocifisso su tavola, attribuito a Segna di Bonaventura (1280-1331), allievo di Duccio di Buoninsegna. Agli inizi del Cinquecento fu spostato e ancora oggi si trova sopra la porta della sacrestia. L’attribuzione all’artista senese viene da un documento ritrovato da Mario Salmi nel 1912, dove egli figura nella badia come testimone in un atto rogato il 21 luglio 1319. Stilisticamente la croce sagomata riprende le forme introdotte da Pietro Lorenzetti, mentre la parte pittorica mostra il passaggio dell’arte senese dalla tradizione “duccesca” al nuovo linguaggio di Simone Martini e dei suoi contemporanei. Il lungo restauro condotto in maniera esemplare da Daniela Galoppi e Laura Ugolini si concluse nel 2006.
Il San Lorenzo di Bartolomeo della Gatta, un gioiello ritrovato sotto la calce
Se l’opera di Segna è il capolavoro del Trecento, il Quattrocento è nel segno del “San Lorenzo” della controfacciata. L’opera datata 1476 ci porta a parlare del “rabdomante” dell’arte aretina, il canonico Ferruccio Bigi (1880-1951), che grazie al suo intuito riportò alla luce tanti affreschi rimasti per secoli sotto l’intonaco delle chiese. Nel luglio 1933, grattando la calce a sinistra dell’entrata, ritrovò il “San Lorenzo”, unico superstite di una serie di santi eseguiti dal fiorentino Piero di Antonio Dei (1448-1502), meglio noto come Bartolomeo della Gatta.
Egli era giunto ad Arezzo intorno al 1470/71, dopo aver preso i voti. Entrò nel monastero camaldolese di Santa Maria in Gradi, nel 1482 divenne priore dell’abbazia di San Clemente e rimase in terra aretina fino alla morte, salvo brevi parentesi. Accanto alla missione religiosa portò avanti l’attività artistica iniziata nella bottega orafa del padre e proseguita nella bottega del Verrocchio. L’incontro ad Arezzo con l’arte di Piero della Francesca, unito al suo background fiorentino, dette vita a un linguaggio di raro fascino. Pittore, miniatore, architetto e costruttore di organi, Bartolomeo della Gatta fu una delle figure più poliedriche che operarono nella seconda metà del XV secolo.
La finta cupola di Andrea Pozzo, spettacolare illusione ottica
Sopra il transetto, proprio di fronte all’altare vasariano, si trova la celebre finta cupola di Andrea Pozzo (1642/1709) con il suo spettacolare inganno ottico. Il trentino fu architetto, pittore, scenografo e teorico della prospettiva, in assoluto una delle figure più importanti del tardo Barocco. A Milano, nel 1665, entrò nell’ordine dei Gesuiti. Lavorò soprattutto nell’Italia del nord e nella Roma papalina.
Per la chiesa di Sant’Ignazio ad Arezzo eseguì negli anni Novanta del XVII secolo il “San Francesco Saverio venerato dalle quattro parti del mondo”, mentre la finta cupola della chiesa della badia fu eseguita nel 1702. Si tratta di una grande tela che ricorda quella eseguita nel 1685 per Sant’Ignazio a Roma, discostandosi da essa per le minori dimensioni e per l’uso più ardito del colore e della luce.
Una piazza da Oscar
Pochi sanno che in seguito all’assassinio di re Umberto I di Savoia, avvenuto il 29 luglio 1900 per mano dell’anarchico Gaetano Bresci, fu commissionato al montevarchino Pietro Guerri (1865-1936) un busto bronzeo a ricordo del sovrano. L’opera, collocata al centro della piazza che nella prima metà del Novecento era dedicata al Principe Amedeo, venne inaugurata nel 1904. Fu salvata dalla distruzione alla fine della Seconda Guerra Mondiale e oggi si trova nell’Archivio Storico Comunale.
Da notare anche il punto in cui la facciata della chiesa incontra via Cavour: lì si svolge una delle scene più divertenti del film “La vita è bella” di Roberto Benigni, quella della caduta dalla bici dell’attore toscano.