Daniele Bonarini, uno dei fondatori, ci ha raccontato l’esperienza della prima casa di produzione cinematografica sociale al mondo, ricordandoci che lavorare con i disabili intellettivi non significa trasformarli nell’oggetto della nostra redenzione. Semmai sono uno specchio nel quale molti di noi non hanno il coraggio e la dignità di guardarsi. Prossimamente un lungometraggio ambientato ad Arezzo
Spogliatevi. Uscite da voi stessi. E leggete questa storia. Quella di Daniele Bonarini, colui che ha risposto alle nostre domande, Andrea Dalla Verde e Michele Grazzini, insieme con la psicologa Sara Borri. I tre moschettieri che hanno creato Poti Pictures, la casa di produzione cinematografica sociale, nata come costola della Cooperativa il Cenacolo Onlus, di tipo B, che a sua volta è germogliata dall’esperienza ultraquarantennale dell’omonima associazione di volontariato dei frati Cappuccini. Daniele, classe ’78, sposato con Martina e padre di Agnese, è entrato a lavorare nella cooperativa nel 2000, facendo i lavori più svariati. Ma è bastato mettere l’occhio dentro una piccola telecamera per accendere la luce dentro e tutto intorno a lui, fino a farla diventare una professione, per realizzare un sogno.
Cos’è Poti Pictures?
Una visione, un modo di concepire la vita e l’altro come persona con una sua bellezza e non soltanto con dei limiti.
Come nasce?
Da un gruppo di amici, in vacanza ogni anno, da quarant’anni, all’alpe di Poti. Con una piccola telecamera iniziai a emulare i grandi registi di Hollywood, girando parodie amatoriali ma esilaranti in cui la produzione non poteva che essere Poti Pictures.
È più corretto parlare di diversità o alterità, l’altro fuori e davanti a noi, e perché?
È giusto raccontare tutte le persone, in tutta la loro diversità, perché il mondo non ha uno standard, per fortuna, quindi è giusto narrare la vita da punti di vista differenti, nessuno escluso. Se il cinema parlasse solo della persona perfetta, senza un difetto, senza una debolezza, quanti film sarebbero usciti? Nel nostro caso si può dire: “L’altro con noi”.
Come nasce l’idea di far recitare ragazzi con disabilità intellettiva?
Dall’autoironia, dal non prendersi troppo sul serio. Questo è stato possibile con l’idea che siamo dei pari. Quindi non prendo in giro loro, ma ci prendiamo in giro.
Quali sono state le difficoltà maggiori?
Inizialmente memoria, comprensione e resistenza. Man mano, poi, che il livello qualitativo e narrativo dei lavori è andato avanti, ci siamo scontrati con ostacoli più complessi, quali la gestione delle emozioni o dei traumi che, recitando, inevitabilmente tornano a galla. Ecco perché nel nostro staff c’è una psicologa.
Quale è stato il momento preciso in cui un’avventura è diventata una sfida professionale e professionalizzante?
È stato un percorso lento, fatto di piccoli passi che ci hanno convinto che si trattava di qualcosa di straordinario e prezioso, qualcosa che andava coltivato e valorizzato. Quando, poi, siamo andati a Dallas, abbiamo capito che eravamo sulla strada giusta.
Oltre i premi, qual è il risultato più importante raggiunto in questi anni di lavoro?
La registrazione all’ufficio dell’Unione Europea per la proprietà intellettuale, che ha sede a Nizza. L’assunzione di Paolo e Tiziano come attori. Il libro che pubblicheremo. Ogni cortometraggio. Su tutti però la costituzione dell’associazione di promozione sociale Poti Pictures Academy. Qui abbiamo messo a punto un metodo, studiato dall’Università di Siena, che è frutto di quindici anni di lavoro, un sistema definito sartoria umana, perché stravolge i canoni del cinema e della società per permettere all’altro di raggiungere i nostri stessi risultati e che muta di volta in volta, a seconda della persona che ho davanti.
È difficile essere raccontati per il valore che dimostrate, e avete dimostrato, o è più facile essere narrati perché realizzate film con ragazzi che hanno una disabilità intellettiva?
Credo che si parli di noi principalmente per il fatto di fare film con disabili. Preferiamo, però, essere raccontati per la qualità del prodotto. In questo ci differenziamo da molti che fanno attività simili alle nostre: al risultato ci teniamo ed è per quello che vogliamo essere giudicati.
Qual è l’ultimo progetto cui state lavorando o avete lavorato?
Abbiamo appena concluso le riprese di un corto, risultato finale di una classe dell’Academy. Si tratta di un lavoro straordinario per difficoltà (complice il Coronavirus) e realizzazione di cui andiamo fieri e che a breve uscirà in distribuzione. L’altro grande progetto è un film che stiamo preparando da tre anni con Tiziano e Paolo, un lungometraggio per il cinema ambientato ad Arezzo, al quale si sono interessati e si stanno interessando tanti nomi noti del cinema.
Il 2020 sarà ricordato da tutti come l’anno della pandemia di Covid-19, che ha colpito molti settori, più di altri quello della cultura, voi come lo ricorderete?
Come l’anno in cui abbiamo pensato in grande, progettato il futuro, scoperto la didattica a distanza con Tiziano, Paolo e lavorato sodo per il film. L’anno dell’università, l’anno del corto e della fatica nel non abbracciarci. Un anno in cui abbiamo cercato di capovolgere le situazioni difficili e fare in modo che diventassero terreno fertile per gli anni a venire. D’altronde, da sempre, siamo abituati a guardare le cose da una prospettiva diversa.
Sappiamo bene, fuori di retorica, che questa società ha problemi a relazionarsi con il diverso, qualunque sia la sua alterità e la sua fragilità. Quali sono le difficoltà maggiori che avete incontrato in questi anni di lavoro, film e premi?
Il mondo del cinema ci ha preso, spesso, a schiaffoni! Potrei raccontare paginate d’incontri con produttori, attori, finanziatori, registi e case di produzione che ci hanno chiuso porte in faccia, illuso e preso in giro perché abbiamo la presunzione di fare film con gli ‘handicappatini’ (cit.). Chi mi ha suggerito un approccio simile a quello usato con gli animali nel cinema. Chi, banalmente, non ci ha considerati. Il mondo vicino a noi invece fa fatica a comprenderci. È complesso far capire che non siamo un centro diurno (indispensabile, ma diverso da noi), che quello che offriamo ai ragazzi non è un passatempo ma la possibilità di confrontarsi con degli obiettivi grandi, al pari dei nostri, e che in molti casi, per la prima volta in vita loro, sono costretti a mettersi in discussione e a non cadere nella trappola autocommiserativa (e comoda) del “sono handicappato, non posso farlo!”.
Qual è il prossimo obiettivo sociale di Poti Pictures?
La pubblicazione del libro sul metodo formativo dell’Academy, in collaborazione con l’università di Siena, avviare una nuova classe dell’Academy (e strutturarla), trovare fondi perché diventi una scuola degna di rispetto senza dover passare notti insonni alla ricerca di finanziamenti.
Cosa ci ha insegnato e c’insegna l’esperienza di Poti Pictures, sia dal punto di vista professionale che umano?
La nostra professionalità non è scindibile dalla nostra umanità. Fare un gran bel film, confrontarci con il top del cinema, non è solo il sogno di Tiziano e Paolo, è anche il mio e di tutto il gruppo di lavoro. Che i sogni costano fatica, tanta, ma si possono realizzare. Soprattutto, che si possa perseguire un obiettivo senza necessariamente scavalcare e prevaricare ma, al contrario, usare l’altro per arrivare insieme a un traguardo.
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Tiziano Barbini
Sono orgoglioso e felice di fare l’attore. Recitare e partecipare ai festival è stato bellissimo. Ho visto posti come Brighton, come Dallas, sogno di andare a Hollywood e recitare in un film western. Tante cose sono cambiate per me in questi anni, nel modo di esprimermi, nelle emozioni, nei sentimenti: cambiamenti di cui si sono accorte anche le persone che mi stanno vicino. Sono capace di imparare a memoria una sceneggiatura di 120 pagine, ma non è facile uscire dal personaggio quando giriamo per tanto tempo. I miei attori preferiti sono Clint Eastwood e John Wayne, ma il complimento più bello me l’ha fatto Violante Placido: “Come te nessuno mai”. Colgo l’occasione per salutare i lettori di Up Magazine: non dimenticatevi di guardare i nostri film!
Paolo Cristini
Da quando recito per me è cambiato tutto. Non mi blocco più, mi sento più sicuro e più aperto verso gli altri. È cambiato anche il modo in cui gli altri guardano me. Quando giriamo mi devo concentrare e rispettare le tre M: ‘memoria’ per ricordare le battute, il ‘mood’ che è ciò che prova il personaggio, ‘movimento’ che rappresenta cosa vuole il personaggio che interpreto. Grazie ai film ho potuto fare le foto con le attrici più belle e viaggiare. Il posto che mi è piaciuto di più visitare è stato Brighton, in Inghilterra. Oggi sono un attore e questo ha provocato un po’ di gelosia negli altri ragazzi e ragazze che frequento, ma la sicurezza che ho acquisito mi ha permesso di metterne a posto uno che quando andavo al centro diurno mi bullizzava. È bastato un bercio. Il mio sogno? Quello di vincere un Oscar, prendere gli applausi e firmare gli autografi. Saluto tutti i lettori e ricordatevi: “Non si lasciano due disabili a piedi”.
La sartoria umana
La storia di Poti Pictures dimostra quali eccellenze si nascondano, non uso il verbo nascondere a caso, nel tessuto sociale e civile della nostra città. Una storia di successo, realizzando film con ragazzi colpiti da importante disabilità intellettiva. La prima riflessione è una domanda: perché una realtà così importante, che ha vinto premi in giro per il mondo, non ha l’attenzione, soprattutto economica, cittadina che merita? La seconda è più introspettiva, come se parlassi con me stesso. Questi ragazzi hanno sfondato dove molti di noi non riuscirebbero, grazie a un metodo che è stato definito ‘sartoria umana’. Guardateli dritti negli occhi, sono uno specchio e se non vi riconoscete, avete, abbiamo, un problema più grande della miopia.
(FC)