«Basterebbe Arezzo alla Gloria d’Italia» secondo Giosuè Carducci, il premio Nobel per la letteratura nato a Pietrasanta (Lucca), Valdicastello per la precisione, e morto a Bologna. Una frase che può essere utilizzata in tanti modi, a volte a vanvera, come chiacchiera da bar, a volte invece come punta dell’iceberg di una conoscenza innamorata e approfondita delle radici storiche e culturali della propria città. Ma forse il complimento più bello è quello che fa il turista, italiano e straniero, quando sussurra: «Non credevo che fosse così bella, Arezzo è una città unica». Ed è ciò che Rachele Fusai (classe ’75), guida turistica, si è sentita dire spesso in questi anni, parole che la commuovono, non solo e soltanto per l’amore verso il proprio lavoro, ma per quello ancora più grande che nutre per la città natale. Cresciuta accanto a quella che oggi è la Casa Museo dell’Antiquariato Ivan Bruschi con affaccio sulla Pieve, tra il Prato, la Fortezza Medicea, piazza Grande, piazza di Porta Crucifera e il Praticino, non poteva essere altrimenti. È come se la polvere di quei muri fosse entrata piano piano nel sangue di Rachele: «Il tramonto è l’ora più bella, con quella luce che fa prendere alla pietra arenaria il colore oro e tutto il centro storico diventa magico».
Poi c’era il giardino pensile che dava sul retro, il quartiere di Porta Crucifera come punto di ritrovo, tra gli anni Ottanta e Novanta, oltre la Giostra, negozi e attività commerciali ovunque, prima che gli abitanti iniziassero ad abbandonare il centro storico: «Era una sorta di libro del quale ancora non avevo imparato il linguaggio. Per me era un mondo pieno di giochi e amicizie, ci ritrovavamo al Prato con i nonni, ci conoscevamo tutti, come una grande famiglia; il Prato era per noi quello che il parco Pertini è oggi per le nuove generazioni. C’erano le botteghe e poi la pizzeria del Corso che chiamavamo ‘la marchigiana’. Ricordi splendidi». Ma la vita è fatta di cambiamenti e quando Rachele aveva quindici anni i suoi genitori, adesso pensionati, hanno deciso di lasciare la città per Badia al Pino, nel comune di Civitella in Val di Chiana: «All’epoca abitavamo in via Vittorio Veneto, ma ho vissuto comunque male quel cambiamento fino a che ho scoperto una nuova libertà: la possibilità di uscire fuori la sera in bicicletta con i miei due fratelli e i nuovi amici. Arezzo è la mia città, con la quale ho un legame indissolubile, ma quelli di Badia al Pino sono stati anni facili e divertenti, come la possibilità di andare da sola in piscina, al Tartana», un altro pezzo della nostra infanzia e della nostra adolescenza che non c’è più.
Dopo quelle familiari sono arrivate le scelte di Rachele, prima l’Istituto tecnico industriale con indirizzo linguistico, poi l’università: «Lingue e letterature straniere, nella sede di Arezzo. Le lingue erano un mezzo non un fine, ho sempre amato l’arte in ogni sua espressione, dalla poesia alla letteratura, dalla scultura alla pittura, all’architettura. Nel mio lavoro di guida turistica ho unito le due cose, grazie all’inglese e al tedesco». Villa Godiola il primo anno poi il trasferimento al Pionta, gli incontri simpatici con gli ospiti dell’ex manicomio, la comodità di avere tutto a portata di mano, gli esami con venti persone invece che duecento: «A Firenze avrei potuto fare un’altra vita, avere più libertà, ma non rimpiango niente anche perché ho avuto degli ottimi docenti, soprattutto quelli di lingua». Una volta laureata, però, Rachele ha sentito il bisogno di spiccare il volo, di provare le ali e avventurarsi in un mondo completamente diverso: «Sentivo che la mia formazione non era completa, al tempo stesso volevo lavorare e non rimanere a casa, così sono partita per Londra, città meravigliosa, mi è piaciuta molto. Ho iniziato in un ristorante italiano a Trafalgar Square, ma dopo due settimane la varechina mi aveva portato via la pelle dalle mani e, soprattutto, non progredivo con l’inglese. L’occasione di cambiare è arrivata con i saldi natalizi da Harrods e grazie alla loro policy delle assunzioni, dovendo bilanciare generi e multiculturalismo. La paga era quattro volte quella del ristorante, mi avevano assicurato e aperto un conto alla Barclays Bank, che ho chiuso solamente l’anno scorso con la Brexit; mi sono occupata di settori merceologici diversi ma il reparto più folle era quello (lo è ancora, ndr) dei gadget, è stata un’esperienza incredibile e formativa indimenticabile».
Poi ci sono il destino e la storia con la S maiuscola che si mescolano al resto. Rachele torna ad Arezzo per salutare i genitori e ripartire, è il 6 settembre del 2001, cinque giorni prima dell’attentato al World Trade Center. Il mondo, diversamente da come l’avevamo immaginato alle soglie del nuovo millennio, cambia radicalmente sotto i nostri occhi: «Sono rimasta spiazzata, mi ero data da fare, Londra mi aveva cambiata e ad Arezzo rischiavo di annoiarmi, non sapevo cosa avrei fatto. La cosa più triste è che nonostante gli studi e i lavori svolti ho girato mesi con il curriculum in mano ricevendo solamente risposte vaghe, con domande da mettere all’indice, come: “Vuoi una famiglia?”, “Vuoi dei figli?”. Sembrava che ad alcuno interessasse la mia figura professionale. Sono riuscita comunque a lavorare fino al momento in cui da dipendente di un supermercato, portando fuori i cartoni degli imballaggi, mi sono resa conto che volevo stare all’aria aperta, dovevo trovare qualcosa che mi permettesse di camminare». Nell’estate del 2002 un altro segno del destino, un bando regionale per guida turistica: «L’ultimo corso bandito gratuitamente con frequenza al 75 per cento che mi avrebbe impegnata per un anno. L’inglese lo sapevo bene, il resto, pensai, arriverà con lo studio; c’erano ottime docenti come Margherita Scarpellini e Liletta Fornasari. È stata, sicuramente, la scelta più importante della mia vita. Ho iniziato a studiare Arezzo, iniziavo a comprendere le parole di quel libro che avevo ‘sfogliato’ da bambina e tutto sembrava prendere il suo giusto posto, anch’io. Nel 2003 ho preso il patentino e a giugno compio diciotto anni di attività. Credo che nel comune di Civitella in Val di Chiana, all’epoca abitavo ancora lì, fosse il numero 1 o il numero 2, un cimelio che conservo ancora oggi. Da allora ho sempre lavorato ad Arezzo con un’estensione territoriale per Siena, ma il novanta per cento del mio lavoro l’ho svolto in città, nel senese solo se arrivavano richieste specifiche dai gruppi che seguivo».
La guida può essere ingaggiata da un’agenzia e/o da un tour operator, gli elenchi di quelle abilitate si possono scaricare dal sito della Regione Toscana: «Il nostro – sottolinea Rachele – è un lavoro stagionale, soggetto a tutta una serie di variabili, con partita IVA. Nel 2007, poi, con la grande mostra di Piero della Francesca è nato il Centro Guide Arezzo e Provincia, una scelta intelligente che ci ha dato più forza come categoria, mentre prima eravamo divise in due associazioni più i freelance. Un punto di riferimento che soprattutto in questo periodo, con la pandemia, ci fa sentire più unite per le nostre richieste, dai ristori alla ripartenza». Inglesi, tedeschi, giapponesi, italiani in ordine sparso. Arezzo, lo sappiamo, non è target per il turismo di massa come Roma, Firenze o Venezia. Dagli affreschi di Piero della Francesca al Cimabue di San Domenico, dalla Pieve a piazza Grande (Vasari), divenuta iconica, alla Fiera dell’Antiquariato: «Con il film La vita è bella (1997, ndr) e il conseguente Oscar la percezione mondiale di Arezzo è cambiata, me ne sono resa conto lavorando con i giapponesi. Tutti, nel mondo, conoscono i luoghi rappresentati nel film. Ed è importante, perché una volta che ‘acchiappi’ il turista questo resta legato alla nostra città. I tedeschi, dopo averci visitato e averci lavorato, ti mandano i video che hanno fatto e programmano il prossimo viaggio in città, con in più la visita a Casa Vasari. Perché funziona così, arrivano per “La vita è bella” e Piero della Francesca, poi scoprono Giorgio Vasari».
«Il momento clou è quando mi dicono: “Non credevo che Arezzo fosse così bella, più bella di Firenze, più bella di Siena”, con gli occhi che gli brillano. Significa che ho fatto bene il mio lavoro, che li ho fatti innamorare della mia città. In quelle due ore di tour il mio obiettivo non è solo fare bene la guida, coccolare il turista, perché qui sono coccolati, non sballottati come in altre località, ma di farli tornare, consapevoli e consapevoli che Arezzo è in una posizione centrale che li può ‘trascinare’ altrove, in Toscana come nel Lazio». Secondo l’esperienza di Rachele Fusai, i più innamorati sono i tedeschi, sempre alla ricerca di autenticità, authentisch (autentico): «Vedono che non c’è niente di ‘turistico’, cioè creato ad arte per, il tedesco vuole spendere con giudizio e sta molto attento al rapporto qualità-prezzo, e la qualità della ristorazione in città è medio-alta, mentre altrove non è così. Amano la dimensione provinciale e rurale, il fatto che appena fuori dalle mura c’è la campagna, si affacciano dal Prato e vedono le vigne di San Fabiano. Sono innamorati di Arezzo, così come delle nostre vallate, tedeschi e americani in particolare della Val di Chiana, con Cortona come punto di riferimento. Anche se in questi ultimi anni c’è stata un’inversione di tendenza. Cortona è meravigliosa e questo non cambierà mai, ma gli aretini hanno preso consapevolezza di quanto sia bella la propria città. Diciamo che loro hanno vissuto di rendita dopo gli anni Novanta, mentre Arezzo ci ha creduto maggiormente e non è più la Cenerentola della Toscana. Era già locumonia quando Firenze era solo un presidio militare e il fascino degli etruschi è enorme. La nostra è una città che definirei didattica: dall’anfiteatro romano al Museo Archeologico Nazionale Gaio Cilnio Mecenate, a tutto il centro storico, basta camminarci dentro per capire tante cose della nostra storia, passata e recente». Per vedere Piero della Francesca vengono da tutte le scuole d’Italia, senza contare gli investimenti promozionali fatti in quest’ultimo periodo che col tempo avrebbero dovuto dare i frutti sperati. Poi la pandemia di Covid-19 ha bloccato tutto, trasformando le città d’arte, come Arezzo, in un fermo immagine.
Come in tutti i settori, però, i problemi della categoria, delle guide turistiche, erano iniziati prima che il Coronavirus sconvolgesse le nostre vite: «Tra il 2013 e il 2014 è cambiata la normativa, anche se la legge è bloccata perché mancano i decreti attuativi. Si tratterebbe di una liberalizzazione territoriale, per la quale ogni guida potrebbe operare su tutto il territorio nazionale, senza conoscerlo approfonditamente. Io non giudico chi lavora dentro la legge, ma credo che ci debba essere un’etica professionale. O lo fanno diventare un percorso universitario nel quale si studia tutta l’Italia, altrimenti è il caos con guide che vengono da fuori e confondono la Pieve con il Duomo, con il rischio di essere apostrofate dal primo aretino, appassionato di storia locale, che passa di lì. L’ANGT, Associazione Nazionale Guide Turistiche, è contraria a questa legge. Noi siamo fedeli al territorio, io per esempio ho fatto un master in etruscologia e corsi da sommelier perché i turisti mi chiedono i vini locali e voglio saper rispondere con competenza, fuori dal mio territorio sarei solo un’accompagnatrice. I giapponesi, poi, vogliono sempre la guida locale e sempre la stessa, ogni volta che tornavano mi portavano origami, caramelle e dolci alle alghe. Quando non lavoravo su Arezzo organizzavo vacanze studio o a tema: antiquariato, ristoranti, ecc.». Poi è arrivato il Covid-19: «Dall’oggi al domani si sono azzerate le prenotazioni. L’ultima visita guidata l’ho fatta a metà febbraio dell’anno scorso con un gruppo di italiani e già eravamo distanziati, ma all’inizio di febbraio avevo lavorato con i giapponesi e loro erano arrivati con le mascherine. Ho fatto qualcosa in estate e poi ci eravamo organizzate in visite a raccolta, senza prenotazione, ogni sabato chi arrivava faceva il giro della città, gratuito per i bambini, poi abbiamo dovuto sospendere anche quelle».
Rachele ha un compagno e un figlio di nove anni. In questo momento vive il presente, come molti di noi, con la difficoltà oggettiva e psicologica di programmare e progettare un futuro che non si riesce a vedere. Cercando di prendere il meglio dalla vita: «Quello che mi manca di più è l’atmosfera domestica della famiglia, i genitori, i nipoti, i cugini, poi mi manca la libertà, la libertà di camminare insieme ai turisti, mi manca la bellezza che Arezzo sa esprimere. Come guide turistiche cerchiamo di far fruttare questo tempo studiando, aggiornandoci, rivedendo il nostro modo di comunicare. WikiPedro (Pietro Resta, ndr) utilizza la tecnologia per raccontare Firenze in solitaria, senza turisti, per me sarebbe impossibile. Io ho bisogno del rapporto diretto col turista, di quell’empatia che si instaura con il gruppo o con la famiglia e la magia che ne deriva, perché devi sapere anche chi hai davanti, quindici minuti per capirlo e organizzare al volo il giro turistico più adatto. Noi ad Arezzo, come Centro Guide, abbiamo cercato di dare sempre una dimensione umana al nostro lavoro, qui non devi sgomitare, non devi fare le maratone, mangi bene e con calma. Nel frattempo ho scoperto che Arezzo manca pure agli aretini e se le cose continueranno così organizzeremo qualcosa online, abbiamo una mailing list e cercheremo di mantenere un filo diretto con chi vorrà seguirci. La pandemia ha già cambiato e cambierà tante cose, sicuramente anche il nostro settore, però non dobbiamo snaturare la nostra professione e vogliamo mantenere un profilo alto. Quindi dobbiamo capire come reinventarci e reinventare la comunicazione online».
Rachele abita vicino a Santa Flora, alla fine di via Romana, verso la Ripa di Olmo. Da lì guarda la sua città, quella che ha amato da piccola e che continua ad adorare da grande: «Mi manca il centro storico, era la mia vita e sarà così sempre. Adesso siamo in zona rossa, ma quando sono potuta tornare in città sono stata travolta dall’emozione, da quella bellezza, dai colori che la pietra arenaria prende al tramonto. Questa crisi, però, non ha travolto solo noi e la desolazione è tanta. Adesso possiamo solo immaginare cosa faremo quando potremo tornare a viaggiare, magari con il passaporto vaccinale. C’è, però, un aspetto che non tutti stanno cogliendo. Le città che hanno sempre investito nel turismo di massa sono e continueranno a essere in sofferenza. Arezzo, invece, non vive solo di questo e può offrire un turismo a misura d’uomo con posti incantevoli tutto intorno a noi, dove il distanziamento sociale è naturale. Penso a Camaldoli, a La Verna, a tutto il Casentino, ma la stessa Valtiberina, il Valdarno, la Val di Chiana, con i piccoli borghi, i sentieri del CAI, le ciclopiste, dalla collina alla montagna, ci manca solamente il mare. Possiamo offrire un turismo sano, calato nella natura come pochi altri posti in Toscana, un turismo sociale come sportivo. Ecco, credo che quando ripartiremo, tutto questo andrà promosso con attenzione, senza inventarsi niente di nuovo, senza bisogno di ulteriori infrastrutture. Ritengo che la stessa Regione Toscana debba ripensare i propri cavalli di battaglia se vuole continuare ad attrarre visitatori, basta unire i puntini che già esistono».
Quello che la pandemia lascerà dietro di sé è difficile da prevedere al momento, perché è tutto come sospeso e un po’ lo siamo pure noi, le nostre vite. Quello che, invece, non cambierà mai è l’amore di Rachele Fusai, anzi Rachele Laura Fusai (Fusai Rachele-White su Facebook, per un soprannome ereditato alle superiori), per Arezzo e il suo lavoro: «Venite ad Arezzo, qui troverete autenticità e storia, potrete vedere e toccare con mano cosa di bello e straordinario è riuscito a fare l’uomo nei secoli, capolavori che a parole non si possono descrivere. Arezzo è stata fondata dagli etruschi e non dai romani, riparata dalle montagne, alla confluenza di più valli, Arezzo è sempre stato un territorio unico anche quando non era una città, è baciata dalla natura (Genius Loci). La posizione fa parte della nostra bellezza e della nostra forza. L’Umbria alle spalle, Firenze e Siena davanti, attraversati dalle opere di Piero della Francesca. Lo straniero, tedesco e giapponese in particolare, rimane incantato dalla Pieve, ogni strada è un saliscendi di stili che affascinano il visitatore, anche quello meno preparato e acculturato. Senza dimenticare che ad Arezzo ci sono murales di famosi street artist: che piacciano o meno, rappresentano una continuità storica e artistica del nostro territorio. Eviterei i paragoni con Piero della Francesca e Giorgio Vasari, ma parliamo di artisti riconosciuti a livello internazionale e la scorsa estate mi è stato chiesto il tour dei murales, per il quale mi sono messa a studiare. Ecco, con la pandemia i tour alternativi saranno decisivi, fino a che non potremo tornare dentro ai musei in completa sicurezza». Perché non si smette mai d’imparare, per reagire ai momenti di crisi, nonostante il tuo lavoro sia stato, momentaneamente, azzerato dalla pandemia, perché c’è un tesoro a cielo aperto che si chiama Arezzo e in città c’è un Centro Guide che garantisce accuratezza e professionalità. Poi ognuno ci mette del suo. Rachele, per esempio, l’amore ancestrale per quei luoghi che l’hanno vista crescere e che ieri, domani, ha raccontato, racconterà ai turisti arrivati fino a qui da tutto il mondo. Adesso la vita è meno bella, ma il tramonto che accarezza i muri della Pieve ci promette ogni sera che tornerà a esserlo più di prima.