A novembre sarebbe dovuto partire per New York, per correre la sua quarta maratona nella Grande Mela, ma le restrizioni dovute alla pandemia gliel’hanno impedito, con suo grande rammarico. Chi conosce Rino Cappelletti sa che quelle medaglie di partecipazione valgono per lui quanto un oro olimpico ed è proprio dietro queste che si declina la personalità e la vita dell’architetto aretino, titolare, insieme ad alcuni colleghi che hanno fatto con lui un lungo percorso gomito a gomito, di Storm Studio Architecture, in via Calamandrei.
Nato ad Arezzo il 10 gennaio del 1971, Il Borro, nel comune di Loro Ciuffenna, è il luogo dove è cresciuto, oggi quello dove ama correre, tra campi e boschi, dove ritrova se stesso, lì dove tutto è cominciato. Famiglia borrigiana da sei generazioni, Rino ha un legame indissolubile con la madre Elda: «È una donna unica, il mio punto di riferimento, anche perché per me, per crescermi e farmi studiare, si è letteralmente tolta il pane di bocca. Guardandomi indietro spero di averla ripagata per i sacrifici che ha fatto. Oggi ho un figlio di dieci anni, Achille, e sono per lui quello che io non ho mai avuto: un padre. Da piccolo ne sentivo la mancanza, ma Elda si è fatta in due anche per sopperire a quel vuoto». Perché Rino Cappelletti non è solo un professionista stimato e conosciuto, non solo in città, ma una persona schietta, di quelle che vanno dritte al punto, difficili da incontrare, ma quando succede non ci si può sbagliare.
Le scuole fatte tra San Giustino Valdarno, Loro Ciuffenna e Arezzo, geometri per l’esattezza. Diviso tra fare l’archeologo o l’architetto: «Due mestieri con lo stesso prefisso. Mia madre è cugina di Ivan Bruschi e quando mi portava da lui, nella sua casa museo, ero affascinato da tutto ciò che vedevo, chiedevo spiegazioni. Nel contempo don Pasquale, al Borro, mi faceva costruire le case del presepe. Possiamo dire che ho avuto due imprinting, quello della costruzione e quello della bellezza». Da una parte il lavoro di geometra dall’altra gli studi di Architettura, quando la facoltà di Firenze era ancora valida, quando c’erano ancora professori all’altezza: «Con i miei soci ci siamo conosciuti all’università, anche se siamo tutti della provincia di Arezzo. Inizialmente, appena laureati, abbiamo preso strade diverse, poi, una ventina di anni fa, ci siamo messi insieme: io, Stefano Benatti, Simone Baldini, Francesco Coleschi, Gianluca Cardesi, geometra, e Giuseppe Curinga, ingegnere. L’inizio è stato difficile, anche perché abbiamo puntato sempre su certi tipi di lavori, proponendoci con la nostra qualità e la nostra identità di architetti, le cose buttate là non facevano, e non fanno, per noi».
Un lavoro, quello dell’architetto, che in questi anni è cambiato, tra gusti dei committenti, crisi economiche, insieme con la tecnologia del mondo delle costruzioni, senza contare la burocrazia: «Se, infatti, la tecnologia è migliorata di molto la burocrazia è peggiorata e con il Covid-19 c’è stato un blocco spaventoso, come se le amministrazioni fossero diventate un mondo a parte rispetto a quello delle libere professioni», sottolinea Rino. Quello che resta è l’identità di un gruppo di lavoro: «Quello che facciamo deve essere sempre contestualizzato rispetto a tre fattori: ambiente, tipo di committenza e committente, niente può essere calato dall’alto o riprodotto in scala. Lavorare ad Arezzo? Da’ soddisfazione perché poi i risultati si vedono, anche se in quella casa non ci entrerai mai più. La cosa più importante del nostro percorso è che non c’è stato un picco e poi ci siamo adagiati, semmai è una crescita costante, tra lavori e committenze, e speriamo che continui così. La pandemia ha, sicuramente, condizionato il nostro lavoro ma ancora dobbiamo aspettare i prossimi anni per vedere i cambiamenti più importanti. Tutte quelle case di 50-60 metri quadrati costruite nei primi anni Duemila, per esempio, che fine faranno? Il cambiamento più veloce lo stiamo, invece, vedendo nella costruzione delle cucine, che nel tempo erano diventate angoli cottura, adesso invece tutti vogliono grandi spazi dove cucinare e vivere, non più separati dal soggiorno. In questo lavoro i risultati migliori si ottengono quando riusciamo a fare coincidere il disegno con la realtà, perché è difficile condurre un cantiere e fare lavorare all’unisono tutte le maestranze. Con queste è determinante avere buoni rapporti e farsi vedere spesso al cantiere, per seguire i lavori e incidere sulle rifiniture. Può accadere che alla fine il cliente non sia pienamente soddisfatto e questo è quello che ci fa più dispiacere, perché lavoriamo per lui non per noi; quindi fare contento il committente è l’obiettivo finale. A volte, per esempio, può capitare che tra moglie e marito con idee diverse si debba arrivare a un compromesso».
In un gruppo di lavoro non sempre si può andare d’accordo ma Storm Studio pare avere trovato la formula giusta: «Siamo come fratelli, quando ci dobbiamo dire le cose ce le diciamo e basta, meglio non covare, nel lavoro tutto deve essere chiaro e trasparente. I materiali che utilizziamo? Quelli più naturali possibile, che ovviamente hanno un costo. La clientela? Per noi non c’è differenza e ci adattiamo a qualsiasi committenza. Può capitare che quella che sembra più volubile, diciamo snob, in realtà sia disponibile e quella che sembrava disponibile si riveli tutto il contrario», afferma sorridendo.
La vita di Rino, come quelle di molti di noi, non è fatta solo di lavoro, ma anche di altro, anche se la professione che hai scelto ti piace e ci stai dentro con tutte e due le scarpe, ma ci sono scarpe per lavorare e scarpe per correre: «Ho sempre fatto sport, prima calcio, giocando nei Dilettanti fino alla Seconda categoria, tornante o difensore esterno. Poi è arrivata la corsa, iniziando per tenermi in forma e scoprendo che è un aiuto enorme, sia per pensare che per riordinare le idee. Posso affermare, senza ombra di dubbio, che le mie corse sono dei viaggi mentali. Adoro correre al Borro, tra boschi e strade di campagna, ma non sempre è possibile, visto che vivo ad Arezzo». Con la corsa è arrivata la maratona: «Non l’avevo prevista, è stata una casualità. Ho partecipato alla lotteria per il pettorale della maratona di New York e l’ho vinto. A quel punto era un salto nel vuoto perché non avevamo mai coperto quella distanza e non conoscevo il percorso, non essendo mai stato prima nella Grande Mela. Ma se io decido di fare una cosa devo arrivare sino in fondo, non contemplo il fallimento. È una prova fisica e mentale senza pari, ma quando arrivi al traguardo è una soddisfazione enorme e ricordi solo le cose belle, i bambini che lungo la strada ti hanno incitato e cose così».
Saltata quella del 2020 per la pandemia, quella di novembre per le restrizioni anti-Covid, a Rino restano le medaglie delle sue tre partecipazioni consecutive: 2017, 2018 e 2019: «Quella di New York è una maratona speciale perché trovi quelli di venti e quelli di ottant’anni, quello di cinquanta e quello di centocinquanta chili, persone sane e persone malate, e tutti vogliono tagliare il traguardo in tempo. Non è solo una maratona, non è solo per gli atleti mainstream, è qualcosa di più, è come la vita. Si corre in mezzo ai grattacieli in una delle città, per me, più belle del mondo. Sono molto amareggiato di non aver potuto partecipare, anche perché ho passato i cinquanta e il Covid-19 mi ha costretto a un periodo di inattività forzata, ma ho già il pass per il 2022 e ci sarò». Il consiglio per tutti? Iniziare piano: «Prima tre, poi cinque, poi dieci chilometri per un’ora di corsa. Quando si inizia a essere allenati si possono affrontare i quindici e iniziare a gareggiare nelle mezze maratone, che sono di ventuno chilometri. Inoltre, a parte le scarpe e l’abbigliamento tecnico, la corsa non è costosa come altri sport, per questo davvero alla portata di tutti e tutte».
Tra l’architettura e la corsa potrebbe delinearsi la figura di un uomo mite, di un uomo razionale, ma Rino è innamorato della vita in ogni sua sfaccettatura e per questo consuma le passioni così come consuma le scarpette per le strade di campagna. La fede calcistica vissuta da ultrà è stata una di queste: «Era un periodo in cui il calcio era bello seguirlo dal vivo, andare allo stadio difendendo i propri colori, credendo in una fede calcistica, che nel mio immaginario, allora, aveva molta importanza. Restare ultrà? Difficile. Difficile con questo calcio che è diventato uno sport da salotto, dove si cerca di omologare il tifo». Passione, colori e impegno però possono avere mille altri sfoghi e per Rino, così come per suo figlio Achille (il suo sogno è correre la Giostra), uno di questi è il quartiere di Porta Sant’Andrea: «Da quando mi sono trasferito in città mi sono calato completamente nel tessuto di Arezzo, vivendola con tutto me stesso e il quartiere è uno dei modi per farlo. Perché non è solo la Giostra del Saracino, è impegno, è socialità, insieme con generazioni diverse dalla mia, un punto di riferimento per i ragazzi e le ragazze. Poi c’è il momento della piazza, che vivo sempre con estremo ardore: è il mio carattere».
Il Prato, il Duomo, il centro storico alto, sono i posti che Rino Cappelletti ama frequentare, insieme ai locali, la parte più godereccia, e il quartiere, quella più sociale: «Architettonicamente il centro storico di Arezzo è bellissimo, sull’evoluzione post bellica della città, però, mi avvalgo della facoltà di non rispondere. Purtroppo è mancata la capacità di mettersi in discussione, sia a livello di amministrazioni che di professionisti. Come Storm Studio ci siamo sempre dati l’input di captare i cambiamenti, reinventandosi, capirli, senza rincorrerli o, peggio, subirli». Perché alla fine l’anima dell’architetto viene sempre fuori: è la bellezza ragazzi, è tutto lì.
Nel futuro di Rino gli obiettivi sono molteplici: «Proseguire nel lavoro migliorandomi, certo, ma tra un po’ di anni vorrei mettermi di più al servizio degli altri, aiutando chi ne ha davvero bisogno. Vedo un mondo che cambia sotto i miei occhi, un impoverimento culturale e umano continuo, perché una cosa è sicura: dal Covid-19 siamo usciti, se possibile, peggiori. Non ho paura per me, non sono uno che ha paura, ma temo per quello che lasceremo ai nostri figli, temo perché vedo tanta fatica nel riconoscere le cose fondamentali del vivere. Da come consumiamo a come amiamo, da come ci nutriamo a come ci rapportiamo con gli altri. Siamo diventati più egoisti. Arezzo resta una città altruista, ma ogni tanto vedo gesti che non gli riconosco e questo mi dispiace».
Affidabile, determinato, presente, i pregi. Orgoglioso, focoso, permaloso i difetti che si riconosce: «Difficilmente perdono quando mi fanno del male». E allora, come cantava Roberto Vecchioni: «E ti diranno parole rosse come il sangue / Nere come la notte / Ma non è vero, ragazzo / Che la ragione sta sempre col più forte / Io conosco poeti / Che spostano i fiumi con il pensiero / E naviganti infiniti / Che sanno parlare con il cielo / Chiudi gli occhi, ragazzo / E credi solo a quel che vedi dentro / Stringi i pugni, ragazzo / Non lasciargliela vinta neanche un momento / Copri l’amore, ragazzo / Ma non nasconderlo sotto il mantello / A volte passa qualcuno / A volte c’è qualcuno che deve vederlo / Sogna, ragazzo sogna / Quando sale il vento / Nelle vie del cuore / Quando un uomo vive / Per le sue parole / O non vive più». Corri Rino, corri e non fermarti più.