C’è la strada che si fa nella vita per raggiungere degli obiettivi. C’è la strada che ci porta lontano dalle radici per crearne di nuove, in posti diversi. C’è la strada di tutti i giorni, fatta di vite e disagio, di storie e umanità. Ed è qui che troverete sempre Roberto, su tutte queste strade perché altri non si perdano, perché solo l’umano e gli altri ci possono salvare da noi stessi.
Roberto Norelli oggi è vicepresidente dell’Associazione D.O.G. – Dentro l’orizzonte giovanile, ma soprattutto è un Operatore di strada, ovvero colui che mette in rete i bisogni delle persone che vivono in strada con i servizi del territorio. Nato a Frasso Telesino, paese in provincia di Benevento con poco più di 2mila abitanti, dopo un diploma professionale ha fatto vari corsi di formazione, muovendosi in giro per l’Italia tra attivismo politico e sindacale. Un percorso che l’ha portato in provincia di Arezzo per occuparsi della filiera del tabacco: «È stata un’esperienza spartiacque, avevo a che fare con centinaia di persone, tra lavoratori e familiari, sviluppando un’importante capacità di ascolto ed empatia. Lì ho capito cosa volevo fare e così ho seguito un corso di formazione professionale per operatori di strada, iniziando con quello che oggi si chiama Ser.D. e lavorando con le varie forme di dipendenza».
Ma è stato con Arezzo Wave che in città gli operatori di strada hanno potuto operare e crescere nelle visioni e nei rapporti con le istituzioni: «Mauro Valenti ha avuto fiducia in noi, dimostrando di saper vedere lontano. Poi c’è stato il rapporto con le forze dell’ordine e con figure illuminate come il vicequestore Paolo Terracciano. Noi facevamo l’accoglienza dei punkabbestia, che diventava un lavoro di mediazione e poi d’informazione sull’uso e abuso di sostanze stupefacenti con tutti i fruitori del festival, tanto che la Polizia ci ha pubblicamente ringraziati».
Sull’esperienza nazionale degli operatori di strada Gian Domenico Pisapia ha scritto un libro Le regole dei luoghi, i luoghi delle regole, nel quale afferma che il ruolo dell’operatore di strada è quello di sciogliere il nodo di una cordicella, che facile non è.
L’Associazione D.O.G. si occupa e si è occupata di temi legati alle varie forme di dipendenza, del diritto-dovere all’istruzione e alla formazione di base legato all’abbandono scolastico, allo sfruttamento dei lavoratori nel settore agricolo, ai clochard o senza fissa dimora che dir si voglia, ai temi della violenza e dello sfruttamento a scopo sessuale, e, più in generale, al disagio giovanile che ad Arezzo la cronaca ci racconta con ciclicità.
«Per favorire la diffusione di una corretta informazione sulle abitudini legate all’alcool andiamo dove i giovani e le giovani si aggregano, piazze piuttosto che discoteche, e proponiamo loro di fare l’alcol test o utilizzare degli occhiali che simulano lo stato di ebbrezza, per fargli comprendere qual è la percezione di una persona che ha bevuto alla guida di una macchina. In questo ci adattiamo alle esigenze dei gestori, prima stavamo dentro le discoteche, oggi fuori: l’idea è quella di non fare entrare persone già ubriache. Il resto è fatto di comunicazione e monitoraggio, anche perché oramai ci conoscono e riconoscono e questo è fondamentale: tante volte siamo riusciti a risolvere situazioni potenzialmente pericolose solo perché sanno chi siamo e come lavoriamo. Infine, nei casi più gravi, attiviamo i servizi sanitari».
In questi ultimi vent’anni il mondo, non solo quello giovanile, è cambiato, la Rete e i social network hanno creato nuovi ambienti digitali: «Una volta potevamo mappare i gruppi e le loro zone di azione, oggi è diventato impossibile, perché prima le cose accadono nel digitale e solo dopo nel reale. Questo comporta per noi nuove professionalità, studiare ambienti prima sconosciuti e formare operatori di Rete. L’operatore di strada non è un lavoro a tempo pieno, cioè non puoi stare solamente sulla strada, devi studiare e, soprattutto, devi lavorare con le istituzioni e con vari stakeholder per fare capire loro cosa fai e realizzare insieme progetti concreti, con obiettivi reali».
Un recente studio, su 320 ragazzi e ragazze, ha evidenziato che dormono una media di 5 ore e che ne passano 6 sui social, in pratica un terzo della loro giornata da svegli, così una volta usciti dagli ambienti digitali hanno difficoltà a rapportarsi con gli adulti, siano essi genitori, insegnanti, operatori di strada, ecc.: «Usiamo linguaggi che loro non comprendono più e così a scuola hanno difficoltà ad apprendere, puoi portare loro la persona più preparata ma se non usa il linguaggio adeguato non sfonda il muro dell’indifferenza. La pandemia, poi, ha peggiorato le cose. Da una parte perché il venti per cento degli studenti non aveva una connessione, aumentando ancora di più il gap di apprendimento. Dall’altra perché ha sviluppato solitudini e individualismo sociale».
Roberto Norelli è scettico sulla narrativa della baby gang, al netto degli episodi di cronaca che insistono sul territorio: «C’è un’incapacità di comunicazione, anche tra di loro. Sul digitale uno dice una cosa e gli altri commentano, gli vanno dietro, da qui nascono spesso i fenomeni borderline che leggiamo sui media, e lo dico con vent’anni di esperienza sulle strade di Arezzo. Serve un’alleanza vera tra adulti, educatori, genitori, assistenti sociali, con un lavoro continuo a scuola e per strada, evitando, però, il “si è sempre fatto così” perché il mondo è cambiato e continuerà a cambiare».
In tutto questo c’è un macro tema che è quello dell’individualismo sociale: «È un tema legato al concetto di democrazia. Le persone si sono disinteressate dei partiti, dei sindacati, della politica in senso lato. C’è una difficoltà, da parte di quest’ultima, a programmare il futuro e la tendenza, generale, a banalizzare i problemi e i temi complessi. Ecco, il Covid-19 ha messo a nudo l’individualismo sociale che nei giovani prende altre forme come la tendenza hikikomori di stare in disparte, di staccarsi da tutto il resto. Il cappuccio in testa per nascondersi, perché non si accetta ciò che si è, e mentre l’adulto, comunque, va avanti, il giovane vede crescere la montagna di cose da fare, di obiettivi da raggiungere e nell’insicurezza e nell’inadeguatezza della sua età si ritira dal consesso sociale, anche da quello dei coetanei. E spesso si pensa che la soluzione sia ‘medicalizzare’ precocemente i giovani».
Roberto racconta le storie dei suoi ragazzi e delle sue ragazze, delle loro difficoltà, di chi, conosciuto in discoteca, è poi diventato anche lui operatore di strada o peer educator: «Innanzi tutto un adulto deve fare l’adulto per essere credibile e creduto, scimmiottare i giovani per farsi accettare è il modo migliore per essere respinto. E poi ci devi essere sempre, ci devi essere quando hanno bisogno, quando sono in difficoltà e non è facile perché il territorio da coprire è vasto e le persone sono tante. Ci vogliono nuovi linguaggi e la capacità di calarsi nel loro mondo, perché altrimenti si rischiano la distanza e l’incomprensione. Proprio per questo facciamo sempre riferimento alla scuola, quale agenzia educativa prioritaria e insostituibile, proprio come la famiglia».
Roberto ama la sua professione e ammette con estrema sincerità: «Lo rifarei? Vorrei nascere operatore di strada e pagherei per un lavoro che non sembra un lavoro, ma regala un mondo di soddisfazioni che ripagano della fatica». E lo dice con quel sorriso di chi conosce la vita e, soprattutto, le persone, di chi vive di rapporti veri e rifugge ogni falsità, perché sono perdite di tempo.
Il futuro? «Il futuro è già qui e lo dobbiamo sempre anticipare, lavorando su tutti i fronti, perché il disagio sociale non ha età, genere, sesso e la strada, fino a prova contraria, è di tutti».