Andare in mille pezzi. È un’espressione tipica di libri e film, difficilmente la sentiamo nella nostra quotidianità, eppure accade, più spesso di quanto pensiamo, accade a chi sta intorno a noi, accade ai nostri amici e alle nostre conoscenze e non sempre ce ne rendiamo conto. Simona, invece, sa che la vita è come un puzzle, che c’è sempre qualche pezzo da rimettere a posto, ma non credeva che avrebbe dovuto ricominciare tutto da capo, non credeva che a lei potesse accadere, ma un tumore al seno ha mandato tutto all’aria e questo è quello che è accaduto.
Simona Buracci è una collega, una giornalista che ha sempre amato scrivere e di questa passione ha fatto la sua professione. Classe ’74 è nata a Castiglion Fiorentino da una famiglia di commercianti, il babbo e la mamma mandano avanti un negozio di abbigliamento da oltre quarantacinque anni e prima il nonno aveva una sartoria. Un fratello e una sorella più piccoli, ha capito presto che non sarebbe diventata una commerciante laureandosi in Scienze della comunicazione a Siena l’11 settembre del 2001, già proprio quel giorno lì. Dalla televisione ai siti Internet, dai quotidiani (Il Nuovo Corriere Aretino) agli uffici stampa, Simona, prima pubblicista e poi professionista, ha attraversato media differenti, senza disdegnare esperienza diverse, come quella al front office dell’InformaGiovani del comune di Arezzo, nel lontano 2003. Oggi, da libera professionista, si occupa dell’ufficio stampa del comune di Sansepolcro, un lavoro che le piace e un ambiente nel quale si trova molto bene.
Il 25 giugno 2021, grazie a esami incrociati, scopre di avere un tumore al seno e di dovere affrontare un’operazione urgente, con conseguente chemio e radioterapia: «Ho sempre avuto un rapporto con la salute particolare, soffrendo di ansia e attacchi di panico che mi hanno portato a una forte depressione ho sempre curato la mia salute mentale, tralasciando quella fisica. Se fosse stato per me certi controlli non li avrei fatti, ma in casa mi hanno sempre spinta alla prevenzione. La verità è che ero molto concentrata sulla mia sfera emotiva, tralasciando il resto».
Esistono vari tipi di ansia. C’è quella naturale, costruttiva se vogliamo, e poi c’è quella patologica, che influenza ogni aspetto della tua vita, che si cura con la psicoterapia e i medicinali: «Due cose che faccio da sempre, cioè la psicoterapia e assumere medicinali. L’ansia patologica ha varie origini, in parte è dovuta alla propria indole, al proprio modo di essere, in parte deriva da situazioni vissute a cui sul momento non si è dato importanza ma che lasciano segni importanti e poi riaffiorano con prepotenza, provocando sintomi invalidanti. Sono stata molti anni senza guidare, non uscivo di casa, non riuscivo ad andare a lezione all’università, perché ero presa dal panico, situazioni che ho rivissuto in questi ultimi mesi. I medicinali? Sono un punto d’incontro mai una via d’uscita e per quanto riguarda la psicoterapia credo che farebbe bene a tutti confrontarsi con le proprie fragilità e i propri limiti. La cosa peggiore è che chi passa quello che ho passato e passo io è etichettato come pazzo. Nessuno si dovrebbe giustificare per problemi di salute mentale e mi batterò sempre per questo. Io, per fortuna, ho incontrato professionisti in grado di aiutarmi».
Potrebbe bastare questo nella vita di una persona, di Simona, per fare i conti con le sue difficoltà e le sue cattiverie, ma è letteralmente impossibile comprendere perché ogni tanto, più spesso di quanto si possa pensare, la vita decide di accanirsi: «Io, tra le altre cose, soffro di anemia e mal di pancia, con una colite mai ben chiarita. Così a giugno scorso mia madre mi ha esortata ad andare da uno specialista che mi ha richiesto una serie di esami, tra questi quello ginecologico essendo stata operata all’utero nel 2004, per un fibroma. In quell’occasione ha visto qualcosa al seno e così ho fatto una mammografia, poi un’ecografia perché dalla prima non si vedeva niente: era chiaro che avevo un tumore, la biopsia ha rivelato che era maligno. La prima cosa è stata prenotare l’operazione allo IEO di Milano, lì mi hanno asportato il tumore e alcuni linfonodi senza la ricostruzione del seno perché è stato preso in tempo. Sono seguiti quattro cicli di chemioterapia ogni ventuno giorni, dal 27 settembre al 30 novembre, poi tra gennaio e febbraio diciannove sedute di radioterapia».
Difficile a dirsi oltre che a farsi. Mentre parla Simona ha la voce calma e profonda di coloro i quali hanno attraversato un buco nero, come dopo un’apnea, uno spavento, a tratti incrinata dall’emozione: «La reazione? Anche a distanza di mesi non sono, mai, riuscita a pensare a ciò che mi era successo chiedendomi in continuazione perché. Poi è sopraggiunta la paura, paura di non essere in grado di affrontare questo percorso viste le mie fragilità, mentre la parte fisica l’ho affrontata con un po’ più di forza, continuando a lavorare e a fare le mie cose. Avvicinandosi la chemio, però, sono andata fuori controllo, sono ripresi gli attacchi di panico e da settembre non sono più uscita, non ero in grado nemmeno di fare una passeggiata. Ero dentro un buco nero all’interno del quale non vedevo alcuno spiraglio, anche se mi avevano detto che il tumore non era particolarmente aggressivo. Ma di fronte avevo la chemio, la radio, la terapia ormonale che ti mette in menopausa e tanti esami diagnostici, che per me, che soffro di ansia e sono claustrofobica, erano una coltellata ogni volta».
Quando ascolti storie come quelle di Simona è difficile fare anche delle domande, soprattutto quelle giuste, ogni volta che apri bocca pensi a una carezza ma non sempre viene fuori bene ed è brutto, perché quando si decide di raccontare storie come la sua non ci possono permettere sbavature: «Sono dovuta tornare ad abitare con i miei genitori, perché non riuscivo a fare niente da sola, dal mangiare al lavarsi, era come fossi annichilita. Loro mi hanno portato la colazione a letto ogni mattina, mi hanno tenuto la mano quando ho avuto gli attacchi di panico, mi hanno accompagnato a ogni visita e a Milano sono stati tre giorni sugli scalini fuori dall’ospedale, perché con le regole Covid non potevano entrare. Mentre io finivo in mille pezzi loro li hanno rimessi insieme uno alla volta, nonostante fossero distrutti dalla paura, con pazienza e amore mi hanno accompagnato dentro il buco nero. Mia sorella, che è medico, si è occupata dei rapporti con i colleghi, incarico tra i meno simpatici, mio fratello delle questioni burocratiche, dai riconoscimenti all’invalidità civile, infine mia cognata e mio nipote. Lui è stato una delle luci in questo periodo, perché anche se mi vedeva senza capelli non ci faceva caso; e, nonostante ciò, è stato faticoso giocare con lui tra la stanchezza e la nausea. Dicono che quando fai la chemio la prima volta hai la nausea ma poi passa, a me non è mai passata e nonostante questo dovevo nutrirmi e lavorare, per fortuna. Senza il lavoro, senza una routine, avrei perso il lume della ragione. Poi c’era Tea la mia bastardina di sei anni. Anche lei è stata un’ancora di salvezza, mi è sempre stata accanto, tra il divano e il letto, senza abbandonarmi un secondo».
Quando si fa un viaggio del genere, all’interno di noi stessi e ritorno, come in ogni viaggio che si rispetti non si torna mai uguali a prima, il percorso ci cambia e spesso lo scopriamo con il tempo: «È ancora troppo presto per capire come sono cambiata, ho finito la radioterapia da poco, ho ripreso a guidare, anche se non da sola, e sono nella fase di ripartenza emotiva. Devo trovare la forza per affrontare nuovamente la vita di tutti i giorni, in questi mesi ho assunto tanti ansiolitici e mi sono chiusa molto rispetto al mondo esterno. Certamente non potrò essere la stessa di prima, ho scoperto fragilità e paure che mi hanno fatta sentire una bambina, allo stesso tempo una forza che non credevo di possedere: se un anno fa mi avessero detto che avrei avuto un tumore e che avrei attraversato questo percorso sarei impazzita dal terrore e invece eccomi qua. Ho pensato di morire nonostante mi avessero tranquillizzato e questa è una cosa che ti cambia».
Ma la vita, purtroppo e per fortuna, non si ferma mai, guarda avanti, al dopo, al poi: «Ho voglia di essere felice, sì lo so che è banale ma è ciò che sento. Ho chiuso la mia vita in una scatola per mesi, adesso è il momento di tornare a respirare. A breve spero di tornare ad abitare da sola e a fare nuovi progetti. Se prima ero empatica e sensibile adesso possiedo nuovi strumenti per parlare con me stessa, per lavorare, per raccontare le storie agli altri. Adesso so cosa vuole dire chiedere aiuto e so che è faticoso, anche solo trovare il coraggio per farlo. Proprio perché ci sono passata, se incrocerò un’amica o un familiare penso che lo capirò subito senza che questa persona debba parlare, debba chiedere. Se devo trovare un lato positivo in tutto questo è un nuovo modo di intendere la vita e chi mi sta intorno, perché il tempo che abbiamo a disposizione è limitato».
Simona, a un certo punto, ha deciso di rendere pubblica la sua condizione e di farlo attraverso i social: «Ho fatto dei post su Facebook con umiltà e senza mai pigiare troppo sul tasto del tumore, volevo esprimere la mia sofferenza insieme con la mia speranza e tante persone mi hanno scritto, raccontandomi la loro esperienza, chiedendomi come stavo. Se c’è una cosa, però, che non credo di essere è una guerriera. Si tende sempre a usare questa parola verso chi affronta il cancro, ma allora cosa dovremmo dire di chi fa la dialisi o di chi affronta altre malattie importanti? Perché alcuni potrebbero fregiarsi di questo appellativo e altri no? Chi lo decide? Il nostro limite più grande è la morte, perché alla fine tutti, prima o poi, dovremo affrontare quell’esperienza, tuti abbiamo una data di scadenza. Questo tumore, per me, è stato un viaggio dentro i miei stessi limiti, cerchi di non pensarci, ti sembra che tutto quello che hai vissuto prima non conti più niente, tutto diventa una montagna da scalare. Le persone che ti vogliono bene ti tengono con i piedi per terra, si fanno carico delle tue paure, nonostante le loro, quando tu sei completamente concentrato su te stesso e ciò che ti sta accadendo. Dovevo, comunque, trovare un modo per reagire e l’ho trovato nel non fare niente, nel farmi attraversare dalla sofferenza fisica e mentale, perché cercare di contrastarle sarebbe stato pericoloso, non dovevo fare resistenza, il dolore era troppo grande e mi avrebbe sopraffatto. Così ho seguito il consiglio di una psicoterapeuta e di un’amica. Dovevo solo pensare al presente, né a ieri né al domani. All’inizio è stato difficile, guardavo sempre l’orologio, c’erano le terapie, gli esami diagnostici, i medicinali e tutto questo era pesante, mi schiacciava, poi sono riuscita a viverlo giorno per giorno, facevo passare le giornate. A un certo punto ho deciso di radermi a zero i capelli, me li ha tagliati mia cognata, allora mi sono messa una papalina, la mettevo la mattina e la toglievo la sera prima di andare a dormire. Quello che non ho mai fatto è stato guardarmi allo specchio, era una delle mie paure più grandi. Alla fine, però, in fondo al percorso ci siamo arrivati».
Un percorso lungo, difficile e doloroso nel quale per tanti motivi diversi, a volte anche la scarsa educazione sentimentale, davvero scarsa di questi tempi, si rischia di perdersi e perdere per strada gli amici e le amiche. Una cosa che, per fortuna, a Simona non è accaduta: «Ho ancora tutti gli amici e le amiche di prima, in più ne ho trovati altri per strada. L’affetto, i consigli, il voler sapere come erano andati gli esami dei miei contatti su Facebook sono stati sorprendenti. Io preferivo non sapere come gli altri avevano affrontato una situazione simile, credo che ognuno la viva a modo suo e così ho fatto io, ma ho scoperto un mondo di persone che pur non conoscendomi mi ha voluto bene e si è preoccupato per me. Io sono molto riservata quindi scoprire questa bolla è stata una sorpresa bellissima, le amicizie si sono confermate e anche se non le sentivo so che si informavano e sapevano tutto di me, della malattia e delle cure. Hanno rispettato il mio silenzio e questo per me è stato importantissimo. I valori? La famiglia? I valori sono sempre quelli, si sono rafforzati, così come la famiglia, siamo più forti e siamo anche più bravi adesso a stare insieme. Ora riesco a guardare con maggiore distacco anche le situazioni difficili del passato, non le definirò mai sciocchezze perché dietro la sofferenza c’è sofferenza e ci vuole rispetto, ma sono alla ricerca di un po’ di leggerezza. Io sono sempre stata una persona pesante, con me stessa e con gli altri, adesso ho bisogno di vivere in modo più leggero».
Una persona, una donna, una giornalista che affronta un tumore potrebbe nutrire il desiderio di raccontarlo: «Un po’ il pudore e la scarsa autostima mi fanno chiedere a chi potrebbe interessare la mia storia. Ho scritto quei post perché ne avevo bisogno in quel momento, avevo bisogno di buttarlo fuori. D’altra parte vivo di scrittura, quindi, sì, ci ho pensato ma devo aspettare, devo fare passare del tempo, devo prendere la giusta distanza da quello che mi è accaduto. È stato troppo doloroso per farlo adesso, ho bisogno di rielaborare il tumore e tutto il resto». Perché come ha scritto Alda Merini: «Devo liberarmi del tempo e vivere il presente giacché non esiste altro tempo che questo meraviglioso istante». E grazie Simona di averlo condiviso con noi.