Un locale a due passi dai capolavori di Piero, diventato luogo di riferimento in piazza San Francesco, cuore del centro storico che sa coniugare aretinità e ospitalità, snodo cruciale della vita notturna e gioiello tra i più apprezzati dai turisti. Cristiano Duranti l’ha aperto diciotto anni fa ed è stata una scelta felice: “Prodotti di prima qualità, vino buono, compagnia. Questa è una vecchia bottega moderna. Ed è la mia vita”
Eclettico, dinamico, socievole, rustico. Cristiano Duranti mette in fila quattro aggettivi per definire se stesso e, in parallelo, anche il locale che gestisce da quasi diciott’anni. Si chiama “Terra di Piero” e si trova nel cuore del centro storico, in quella piazza San Francesco che riesce a coniugare aretinità e ospitalità, snodo cruciale della vita notturna e gioiello tra i più apprezzati dai turisti.
“Facevo l’agente di commercio, quest’attività l’ho avviata per passione – racconta Cristiano – e ho rischiato di smettere presto. Ho aperto il 10 agosto 2001, un mese dopo ci fu l’attentato alle Torri Gemelle, a gennaio del 2002 arrivò l’euro. Un disastro. Però non mi sono buttato giù, ho metabolizzato la fatica, ho assecondato le mie inclinazioni e sono andato avanti. Si lavora sei giorni su sette, dalle 10 di mattina fino a quando c’è gente, che nel fin settimana vuol dire fare le ore piccole. Ma io adoro stare in mezzo alle persone, mi dà adrenalina”.
Sposato con Serena, due figlie di 13 e 10 anni (Alice e Matilde), aretino del Bagnoro, amante del vino, amante della compagnia, amante delle sue origini, Cristiano ha dato alla città un luogo di riferimento, di ritrovo, una certezza.
“All’inizio facevo fatica a lavorare mentre gli altri si divertono, poi ho imparato a divertirmi anch’io e adesso è molto più facile”.
“Terra di Piero” è un posto dove assaggiare prosciutti e salumi di prima qualità tagliati al coltello, assortimenti di formaggi, salmone, frutta, tutti prodotti di eccellenza. E ovviamente, dove degustare una selezione di vini raffinata, con una scelta molto vasta. Eclettismo, per l’appunto.
“La mia è una vecchia bottega moderna. Mi sento un bottegaio, simile a quelli di una volta perché la passione è identica, anche se è cambiato il contorno: c’è internet, c’è un turismo diverso, il cliente è più difficile da accontentare. Importante è la ricerca: ancora vado in Borgogna di persona a prendere un pinot nero che amo moltissimo… Il vino è vivo e in evoluzione come il nostro palato, l’ho sempre pensata così: a diciotto anni bevevo cose che oggi non apprezzo più. Poi c’è il resto, ci sono le emozioni dentro il bicchiere e quelle te le danno anche le persone, le storie e i luoghi. Il vino cambia sapore se conosci chi lo fa, come lo fa e dove lo fa: la mia bottega l’ho impostata su questi princìpi”.
Tavolini all’aperto sulla piazza, un gazebo che ripara dalla pioggia e dal sole, il bancone all’interno e, finalmente, un altro ambiente accanto a quello originario. Il dinamismo di cui parlavamo all’inizio emerge anche da qui: “Dopo quasi diciott’anni in ventotto metri quadrati, ho ampliato il locale. Ho quattro dipendenti, con me lavoravamo in cinque e sembravamo un tetris vivente: dovevamo prendere le misure, incastrarci alla perfezione, sennò non si passava. Questa stanza in più mi ha dato vita, come succede quando riesci a concretizzare un’idea a cui tieni molto. Ci ho messo un tavolo unico, grande, che serve per socializzare: i clienti si siedono vicini anche se non si conoscono, si scambiano saluti, opinioni, bicchieri. Bello, no?”.
Bellissimo, viene da rispondere, anche perché questa è la “Terra di Piero” di nome e di fatto. Accanto agli aperitivi, ai crostini, ai brindisi, ci sono capolavori che il mondo ci invidia e questa miscellanea di sacro e profano dà alle serate della piazza un’atmosfera unica.
“L’idea del nome del locale nasce dai miei genitori ed è un omaggio a Piero della Francesca, alle sue opere d’arte che hanno rivoluzionato la pittura. In passato abbiamo organizzato visite e degustazioni a San Francesco, in Duomo, alla Pieve: un clima informale ma molto stimolante, anche perché è impossibile non avere a cuore meraviglie del genere. Arezzo deve sfruttare la sua attrattività, sia in maniera turistica che per la vita di questa piazza, ormai indirizzata verso le attività di food and beverage. E forse è giusto così. La concorrenza a me va benissimo: io porto gente, gli altri locali portano gente, così si cresce. A patto che ci siano intelligenza e rispetto. In qualche modo siamo arrivati a un equilibrio”.
Questo traspare pure dai rapporti di lavoro interni a “Terra di Piero”, mai mordi e fuggi e sempre impostati sulla complicità, sul medio periodo, sulla stabilità. Sulla socievolezza per l’appunto.
“Non mi piace cambiare staff velocemente e in fretta. Dobbiamo lavorare gomito a gomito tutti i giorni, più feeling c’è e meglio è. Per questo ho sempre cercato collaboratori con le mie stesse attitudini: Gabriele è stato qui quattro anni, Chiara è con me da cinque, Daniele era un mio compagno di scuola. Per fare le cose per bene, bisogna affezionarsi alla cucina, ai prodotti, ai tavoli, ai clienti. E ci riesci soltanto con il tempo. Arrivi a un certo punto e ti viene tutto naturale, che poi è il motivo per cui la gente frequenta questo locale: clima sereno, educazione, spontaneità. Anche i turisti si sentono a casa”.
Il segreto del successo, quindi, sta nel clima familiare, nella suggestione di uno degli angoli più belli della città, nella qualità delle cose che si mangiano e si bevono, in un background lungo ormai diciotto anni, pieno di ricordi, di episodi curiosi, di aneddoti.
“Una volta entrò Juliette Binoche, l’attrice. Ordinò del vino e un tagliere. Non l’aveva riconosciuta nessuno, tranne Sergio che le fece avere un biglietto. C’era scritta una frase di un suo vecchio film: “les amants du Pont-Neuf”. Lei sorrise, fu cordialissima e molto discreta. Ancora me la ricordo, le consigliai un Sangiovese, il vitigno toscano per eccellenza e uno dei miei preferiti insieme al Pinot nero e al Nebbiolo. Se dovessi invitare un ospite illustre gli offrirei questi. Amo i vini che non annoiano”.
Siamo alla fine dell’intervista e manca l’ultimo aggettivo: rustico, cioè scontroso nei modi esteriori.
“Ogni tanto qualcuno ce lo mando a quel paese… L’ho detto, sono del Bagnoro, sono schietto, a volte capita. Ti racconto questa: un giorno entra un signore di mezz’età, stavamo facendo le pulizie. Il locale non era ancora aperto, glielo dico ma lui non se ne va. Anzi, chiede un caffè e gli spiego che noi il caffè non lo facciamo, che poteva andare al bar di fronte. Niente da fare, insiste e allora, litighiamo. Mezz’ora dopo mi telefona un’amica e mi dice: devo presentarti una persona importante. Vado e mi trovo davanti il signore di prima: era Gianfranco Soldera, uno dei più grandi produttori italiani di vino. Ci salutammo con un po’ d’imbarazzo, non ebbi la forza di dirgli che avevo sempre comprato le sue bottiglie”.