La presenza scenica, la personalità, l’orgogliosa coerenza artistica, le note. Le sue note. E quelle del grande David Bowie. Dal primo incontro con il rock alle luci della ribalta, Andrea Chimenti racconta una carriera scandita dal ritmo della passione
Accarezzo il disco di vinile con le mani. Lo adagio di nuovo sul giradischi Philips, adesso definito “vintage” mentre rivivo i concerti, la folla che pulsa, il sudore, i baci strappati, la musica… la musica dentro. Eppure mi ero ripromesso di non lasciarmi andare a struggenti ricordi mentre, nella redazione di Up, aspetto l’arrivo di Andrea Chimenti. Nato a Reggio Emilia, adesso vive a Verona. Lui che è aretino a tutti gli effetti. Qua ha vissuto la sua vita, qua ha coltivato la sua personalità. La stessa che lo ha reso precursore della New Wave italiana, che lo ha condotto a collezionare collaborazioni con David Sylvian e Mick Ronson, che lo ha portato a celebrare David Bowie anni prima della sua scomparsa. Cresciuto a pane di jazz inzuppato in latte di musica classica, ha incontrato il rock da adolescente: un amore travolgente che ha segnato e sconvolto la sua esistenza.
Anni ‘80, Arezzo. La scuola. Gli amici. Tu decidi di mettere su un gruppo. Da dove viene la tua cultura musicale?
Sono cresciuto in una famiglia in cui mio padre era l’appassionato di musica, in particolare di jazz e classica. Mi sono formato tra questi due mondi musicali. Fino all’adolescenza il rock per me era una cosa che non volevo nemmeno sfiorare. Incredibile. Fino a quando mi è stato prestato un disco, che è Diamond Dogs di David Bowie. Il primo amore. Rimasi molto colpito dalla copertina, poi dalla musica appena lo misi sul piatto. Da lì mi sono allargato al mondo del rock e del prog: dai Genesis ai Pink Floyd, da Lou Reed a Marc Boland. Nel frattempo studiavo cinema d’animazione a Urbino, il cartone animato è sempre stato la mia passione. Dopo cinque anni sono rientrato ad Arezzo, dove ho cominciato a lavorare nel campo pubblicitario. Di giorno lavoravo ad Arezzo, la notte suonavo a Firenze. Facevamo le prove con il gruppo in Via De’ Bardi 32. Ci chiamammo fin da subito Moda.
Come è nato il nome Moda?
Guardando sul dizionario, volevamo un nome breve, d’impatto e che dicesse qualcosa della contemporaneità. Il significato di “moda” è letteralmente “costume contemporaneo”. Ed è quello che volevamo comunicare. Invece è stato molto travisato, pensando che fosse solo legato ai vestiti. Siamo stati perseguitati dalla critica. Ci accomunavano agli Spandau Ballet, ai Duran Duran. Mentre Litfiba e Diaframma erano considerati più rock. Per un po’ sono andato avanti lavorando come pubblicitario e come musicista. Alla fine ho scelto la musica. Ho rischiato molto, ma sono felice di averlo fatto. Con la musica si rischia sempre.
Da lì il primo disco.
Si è venuto tutto in maniera molto naturale. Io avevo messo da parte un po’ di soldi per registrare un provino. Eravamo al Gas, lo studio di registrazione di Checco Loi, figlio del famoso regista. Per le stanze si aggirava un tipo strano con barba e sigaro, socio di Loi. Era Alberto Pirelli, fondatore dell’etichetta I.R.A. Pirelli ascoltò il brano che stavamo incidendo e ci propose di far parte del progetto discografico che stava mettendo in piedi. Non abbiamo esitato ad accettare. Era esattamente l’occasione che stavamo cercando.
Dopo soli tre album arriva però lo scioglimento dei Moda.
I Moda si sciolgono nell’89. Il motivo è che l’etichetta voleva da noi un prodotto mainstream, sanremese, mentre i Litfiba dovevano essere l’opposto. Una parte di noi era d’accordo, una parte no e alla fine ci siamo sciolti.
Una carriera votata contro il mainstream?
Non ho niente contro le vetrine o la musica commerciale. Io non sono contro Sanremo, vorrei solo portarci quello che piace a me. Ciò che stimo in un artista è la coerenza e la genuinità.
Nel ‘96 l’incontro folgorante con David Sylvian.
Ho composto il disco L’albero Pazzo. Ma ero in difficoltà a trovare chi potesse produrlo. Lo ricordo come un periodo nero, in cui avevo pensato anche di abbandonare la musica. Nel frattempo succede che David Sylvian viene in Italia a fare dei concerti con Robert Fripp e chiede di ascoltare alcuni musicisti italiani. Tra quelli che ascolta c’è anche il mio demo che lo colpisce, tanto da contattarmi. A quel punto per me si riaprono tutte le porte e cominciamo questo lavoro a quattro mani, a distanza. Per fax lavoravamo al testo, mentre la musica gliela inviavo per posta.
Tu nella vita hai scelto sempre quello che ti piace. Se Andrea Chimenti dovesse cominciare la sua carriera nel 2018, quale sarebbero i suoi primi passi?
Non vorrei essere nei panni di un giovane musicista oggi. Tutti dicono che ci sono molte più possibilità, c’è più visibilità anche grazie alla tecnologia. Ma in questa nostra società c’è un rumore di fondo, che ci impedisce di focalizzarci sulle cose importanti. è come se dentro un’acciaieria ci fosse Uto Ughi che sta suonando il violino, nessuno se ne accorgerebbe. Allo stesso modo in rete tutti sono musicisti, cantanti, opinionisti, giornalisti. Districarsi in tutto questo pone delle difficoltà ciclopiche. Inoltre è cambiato il modo di ascoltare la musica: scarichiamo, ascoltiamo per pochi secondi e poi buttiamo. L’approccio all’ascolto è quasi celebrativo. I dischi più belli non mi sono quasi mai piaciuti al primo ascolto, ma avendo acquistato il vinile davo loro una seconda chance. Oggi invece tutto rimane molto vago e impalpabile. Temo che mio figlio non potrà lasciare dei dischi a suo figlio.
Hai parlato di tuo figlio. Anche lui ha un gruppo. Cosa ha ricevuto da te?
Lui è nato ascoltando musica, ma sognavo che non ci costruisse il suo lavoro, è un mestiere difficile. Ho fatto di tutto per non coinvolgerlo nei miei impegni. Ma alla fine ha preso in mano un violoncello. Era bravo. Alle superiori ha scelto il Liceo musicale e a quel punto, come genitore, non potevo che assecondarlo. Oggi suona nei Sycamore Age, che fanno un genere molto lontano dal mio, lui stesso canta con una sua personalità da esprimere e di questo sono molto felice. Un giorno lui è venuto da me con Davide Andreoni (chitarrista dei Sycamore Age) proponendomi di produrre insieme un disco. All’inizio non volevo accettare, ma alla fine ci siamo trovati benissimo, ci siamo dimenticati di essere padre e figlio e il disco – Yuri, il mio ultimo in studio – è uscito fuori spontaneamente. Da questo abbiamo poi collaborato al mio spettacolo su Bowie. è bello che ognuno abbia i suoi progetti, ma a volte ci “incontriamo”. Lui continua ad abitare ad Arezzo, mentre io a Verona.
A proposito di Bowie, che ha segnato le tappe più significative del tuo rapporto con la musica, in tempi non sospetti tu hai portato cover molto peculiari del duca, anche prima della sua scomparsa.
Tutto è nato nel 2015, quando mi hanno proposto di fare una serata dedicata a Bowie per l’estate fiorentina in piazza Santa Maria Novella. All’inizio non avevo intenzione di accettare, perché non volevo misurarmi con questo mostro sacro. Quando ho compreso lo spirito della serata, e saputo che ci sarebbe stato un quartetto d’archi per eseguire Beethoveen, Prokovief e infine Bowie, ho pensato che poteva essere davvero interessante. Si trattava di rompere tutti gli steccati tra i generi musicali – in cui gli steccati sono tipici – e accostare Bowie ai grandi compositori dell’800 e del ‘900.
David Bowie torna sempre nella tua storia professionale e lo dimostra la co-produzione del secondo album dei Moda, legata all’incontro con un altro gigante della musica, il chitarrista del duca bianco, Mick Ronson. Un altro incontro casuale?
Sì e no. Ronson stava registrando in Italia con gli Andi Sexgang. Ho avuto modo di fargli avere il mio demo in cassetta. Anche lui conosceva Pirelli e così decidemmo di trovarci per mangiare una pizza e parlare. Andammo a Firenze e, a fine serata, Ronson ci disse che sarebbe tornato dopo qualche mese dall’America e avrebbe prodotto il nostro disco. Così è stato. Una cosa che ho imparato dagli inglesi, quelli che lavorano in ambito musicale, è la serietà estrema con cui prendono il loro lavoro.
Tra i tuoi dischi, qual è quello a cui sei più affezionato?
L’albero pazzo sicuramente, perché è stato un “parto”! Ha segnato una svolta. L’altro è Il porto sepolto.
E dopo tutta questa esperienza musicale, quali sono i dischi che… porteresti su Marte?
In ordine sono:
Lodger di David Bowie; La IV Brahms (per le mie origini); The Lambs Lie down on Broadway dei Genesis; Ok Computer dei Radiohead.
Stai lavorando a qualcosa di nuovo?
Sì, il mio nuovo disco uscirà in autunno. Sarà un progetto molto variegato, sia per contenuti che per la squadra che ho messo insieme. Ogni produttore si occuperà di un paio di brani. Tra questi c’è anche Teo Teardo che si occupa di colonne sonore a livello internazionale e che ha lavorato anche con il musicista Blixa Bargeld.
Nello stringergli la mano gli strappo la promessa: il prossimo videoclip del suo nuovo singolo voglio girarlo io.